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Tempo, parole e ciò che sta nel mezzo. Il censimento dei lampioni, di Carmelo Vetrano.


Sebastiano torna nel paese natale, in Puglia, per espletare le ultime pratiche inerenti alla separazione dalla moglie Magda. Dovrebbe essere affare di qualche giorno, ma un’offerta di lavoro, seppur temporanea, il conseguente riavvicinamento col padre, col quale forma la squadra nell’attività di controllo e censimento dei lampioni pubblici, e l’incontro con una ragazza del paese, lo spingono a trattenersi. In questo modo riesce a fare i conti col proprio passato e a dare nuove coordinate alle relazioni significative della sua vita.


Il romanzo di Carmelo Vetrano, uscito per Laurana Editore nella collana Fremen, diretta da Giulio Mozzi, è una validissima prova d’esordio, in cui i temi, che pure sono presenti con una certa frequenza nella nostra narrativa più recente, sono affrontati con una particolare acribia che si giova, dal punto di vista strutturale e narrativo, del narratore in prima persona – Sebastiano stesso – e della sua naturale propensione all’analisi e a una sorta di tassonomia del reale; e dal punto di vista stilistico, di una meditata pulizia linguistica, in cui poco spazio se non nullo viene concesso alla retorica e alla indulgenza figurale.



Per entrare nel dettaglio, il romanzo di Carmelo Vetrano, è una lunga e, necessariamente, inconclusa riflessione sul tempo e sulla relazione che il soggetto, attraverso l’inganno che ogni discorso contiene, instaura con esso. L’espediente narrativo, simbolico, utilizzato per questo lavoro è fornito dai lampioni dell’illuminazione pubblica che Sebastiano e suo padre devono censire per conto di un’azienda che ha vinto una gara d’appalto; il loro compito è certificarne lo stato di fatto, indicando in un’apposita scheda le condizioni generali, il tipo di lampade usate, gli eventuali guasti, e applicare infine un adesivo numerato.

I lampioni si susseguono uno dopo l’altro, statici, immobili, a distanza spesso identica; se variano è per alcuni dettagli, per il tipo di copertura, per l’angolo della curvatura, per la lampadina usata; ma nel complesso ciascuno e tutti nell’insieme comunicano la stessa sensazione di fissità e identità petrosa, lunghissima.


Quella zona non aveva niente che la caratterizzasse; era una zona di transito che collegava la campagna al paese, il ponte che serviva a trasportare gli sguardi da un’estetica a un’altra. Una striscia d’asfalto, due lampioni, qualche casa. Cespuglietti d’erba cresciuti troppo. Il lampione mi comunicava che non avrebbe fatto altro che continuare a essere se stesso, mi sentivo insoddisfatto e non sapevo cosa scrivere.


Stravinskij, nella sua opera La poetica della musica racconta di essere entrato in un locale dove stavano facendo musica e di essere stato colpito dalla improvvisazione del sassofonista. La percezione dell’esistenza di tale improvvisazione, e del suo valore, è garantita dalla regolarità della sezione ritmica, che si comporta per quella come una sorta di alloggio e di appoggio. Notiamo il movimento di qualcosa perché accade sullo sfondo di oggetti fissi.

Nel romanzo di Vetrano sono i lampioni a fare da base alle improvvisazioni di Sebastiano, che attraverso un lavoro di taglia e cuci (come l’attività casalinga della madre) tra esperienze presenti e ricordi del passato, cerca di far quadrare un bilancio esistenziale per niente consolidato.


Ancora, e da altra prospettiva: i lampioni censiti dalla squadra costituita da padre e figlio rappresentano qualcosa che potremmo ricostruire così: l’illuminazione pubblica stradale è un fatto recente che ha a che fare con l’ingrandirsi delle città; dapprima erano gli abitanti stessi a provvedere con lampade proprie messe fuori da casa, dal Settecento furono le amministrazioni a farsene carico; all’inizio funzionavano con l’olio, vegetale o animale, passando nel primo ventennio del 1800 al gas, cosa che iniziò a introdurre una gestione centralizzata dell’illuminazione; ma è certo con l’invenzione della lampadina a incandescenza da parte di Edison e con i progressi dell’industria elettrica, che l’illuminazione può diffondersi ovunque e contemporaneamente.


L’illuminazione pubblica è fenomenale, e una riga di lampioni che si accendono ci mostra la velocità della luce, ci mostra in un istante la scomparsa del buio. In ciò hanno qualcosa di simile alle nostre intuizioni, o alle epifanie, che ci mettono d’incanto di fronte a una nuova configurazione della realtà, illuminata dalla luce della ragione. Il cui sonno, come noto, genera mostri.


Nello svolgimento del lavoro, la squadra formata da padre e figlio consolida un legame fatto di routine, puntualità, divisione dei ruoli, collaborazione, rendendo possibile quella prossimità e vicinanza che nello spazio e nel tempo familiari era stata già annichilita.

Mio padre invece avevo sempre continuato a dirlo. Era strano, i primi tempi, dopo che lui era andato via da casa, pronunciare quelle parole e accorgermi di come in realtà non si fosse mai spostato dalla mia testa. All’interno di quelle due parole la nostra relazione era rimasta intatta e inossidabile, e quando le usavo riuscivo a ignorare tutti quei motivi per i quali mi erano spesso sembrate vuote e prive di significato.


Fin da qui – siamo all’inizio del romanzo – mi pare che sia posta con chiarezza una via fondamentale di interpretazione del testo: le parole riescono ad agire sulla realtà delle cose sebbene siano slegate dal contesto di riferimento; anche a prescindere dal contesto; o, addirittura, proprio perché avulse dal contesto. È una questione che tornerà altrove: nei testi delle canzoni che fanno da traccia magica nell’incontro tra Sebastiano e Lisa, ad esempio; o, clamorosamente, nella deriva poetica che assumono le note che Sebastiano scrive nei moduli relativi ai lampioni che controlla col padre. In quest’ultimo caso tanto più la parola si allontana dal referente, tanto maggiore è la possibilità di farne arte. Ed è proprio attraverso l’arte che il patrimonio formato dal capitale sfrangiato e sempre ri-narrato di eventi passati, unito al flusso di cassa di esperienze presenti e nuove, viene rielaborato come dichiarazione progettuale per il futuro, come rischio di impegno in nuovi investimenti di vita.


Gli oggetti legati al lavoro che i due svolgono paiono quasi emergere dalle atmosfere spaventevoli di un incubo: il cilindro che àncora il camion a terra è l’artiglio di un mostro meccanico e il braccio meccanico della cabina è il lungo collo di un uccello addormentato, mentre il cestello è una testa sproporzionata rispetto al corpo. Lo stesso padre, dall’alto, ricorda a Sebastiano il protagonista di un telefilm di fantascienza degli anni Ottanta, e la cosa consente a Sebastiano di pensarlo diverso:


Osservandolo attraverso la filigrana di quella somiglianza gli attribuivo un carattere diverso, pensieri diversi, un passato diverso.


Il tricolon non è casuale. Il termine carattere, che certo vale a indicare il temperamento del padre, sta anche per la forma delle lettere e, dunque, di un testo e si connette agli altri due sostantivi in modo stringente, per chiarire il quale richiamiamo un celebre passo del Teeteto di Platone, in cui Teeteto discute con Socrate (191d-e):


S - ...supponi che nelle nostre anime si trovi una massa di cera, in qualcuno più grande, in qualcuno più piccola, e in qualcuno di cera più pura, in qualcun altro di cera più sporca e indurita [d] e in altri di cera più molle, in altri ancora di consistenza intermedia.

T – D'accordo.

S – Diciamo allora che questo è dono di Mnemosine, la madre delle Muse, e che in esso, ponendolo sotto le nostre percezioni e i nostri pensieri, come se vi imprimessimo dei sigilli, imprimiamo ciò che vogliamo ricordare fra le cose che vediamo, udiamo o pensiamo. Di ciò che viene impresso abbiamo memoria e scienza...; ciò che viene cancellato...invece, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza.


L’itinerario di Sebastiano è soprattutto caratterizzato da una progressiva – e involontaria – liberazione dalla presunzione che i contenuti dei ricordi siano lampioni, elementi fissi, immutabili, uguali a loro stessi; e dal delirio che così spesso ci fa costruire, su quei ricordi, edifici identitari solo apparentemente stabili. I ricordi non si censiscono, ma si lasciano essere e transitare nel vasto orizzonte dell’apparire, centri energetici capaci di ricordarci sempre e solo chi siamo: poeti che inventano ciò che siamo stati per cantare ciò che saremo.


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