ROBERT: Hai letto niente di buono ultimamente?
JERRY: Ho letto Yeats.
Harold Pinter, Tradimenti[1]
One day I was listening to the AM radio. I heard a song: "Oh, I Long to See My Mother in the Doorway." By God! I said, I understand that song. I have often longed to see my mother in the doorway. As a matter of fact, she did stand frequently in various doorways looking at me. She stood one day, just so, at the front door, the darkness of the hallway behind her. It was New Year's Day. She said sadly, If you come home at 4 a.m. when you're seventeen, what time will you come home when you're twenty? She asked this question without humor or meanness. She had begun her worried preparations for death. She would not be present, she thought, when I was twenty. So she wondered[2].
Questo è l’incipit di un bellissimo racconto molto breve di Grace Paley, intitolato Mother: l’ascolto casuale di una canzone, una impressione rapidissima guidata dal titolo, la sciame di immagini fino a poco prima custodite negli anfratti della memoria. Non c’è altro e altro non serve.
L’ultimo libro Paolo di Paolo, una sorta di doppio saggistico dell’ultimo romanzo (Romanzo senza umani, di cui potete leggere la recensione qui, seguita da un’intervista all’autore), si muove su una linea di tensione molto simile a quella suggerita dal racconto di Paley, mostrando come la natura metaforica della poesia (un carattere che condivide con altri luoghi di confine, come il sogno) ci concede, grazie a improvvise attivazioni, di traslocare in tempi e luoghi che hanno per proprio il carattere del perturbante. Qualcosa di familiare e straniero che ci inquieta, forse per la lingua altra, forse per la bizzarria di chi quella lingua la padroneggia, forse per il collegamento immediato ai tempi degli obblighi scolastici, o forse ancor più perché oltre quelle righe che vanno a capo prima c’è una volontà e una ricchezza di senso che ci ammutolisce, noi esseri compresi senza aver (tutto) compreso.
Il viaggio dell’autore segue varie direzioni e profonda in più livelli: all’indietro, illuminando zone biografiche come foto sparse in vecchi album; attorno, spulciando ciò che la poesia ancora dice e dove, e quanti ne hanno ingegno e come; in avanti, come monito e speranza che il cielo ancora basti a illuminarla; e poi nei sensi e nei significati, nelle misure e nelle lingue varie di cui la poesia si veste o si arma; nel bisogno che la parola poetica ha di essere più volte letta, altrimenti detta, ascoltata.
Lo dice, Paolo di Paolo, che quella poetica è una lingua aliena che difetta spesso di trasparenza, che pretende acribia e che piano si concede, come un’amante coscienziosa che anche quando scherza non vuole di-vertire. Piuttosto, se una funzione le si può riconoscere, e che è consustanziale al suo essere letta (leggere da lĕgĕre, raccogliere), è quella di tenere insieme gli esiti delle sue fioriture che accadono da secoli, la sua – così bene detta da Montale – tenace ganga che aggrega i vivi e i morti.
Leggere, qualche volta, è come uscire la sera e rientrare a notte fonda avendo addosso, come una scia di fumo, una serie di emozioni nuove, inattese. Molti pregiudizi ricevono colpi quasi mortali. Lo spazio davanti ai nostri occhi si allarga incredibilmente, caricandosi di possibilità. [p. 42]
Sarà allora attorno a questa lingua che ciascuno può ricostruire un proprio itinerario di lettore sconfitto (con la poesia si perde sempre), aggregare i propri vivi e morti, rammentare e rammendare in un vortice unisono, e rifamiliarizzarsi con parole credute perdute, oltre quel generico sentimento perturbante di cui si diceva all’inizio.
Bisogna avere una mente d’inverno
Per osservare il gelo e i rami
Dei pini incrostati di neve;
e avere patito tanto freddo
per guardare i ginepri ricoperti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel distante riflesso
del sole di gennaio […]
[Wallace Stevens, cit. a p. 60]
Di questo ci fa dono e grazia l’autore con il suo libro: ci offre un viaggio della memoria (una pratica che gli è molto cara e che è tra le sue caratteristiche principali di scrittore) che è assieme un’antologia poetica, un’autobiografia letteraria, un resoconto di incontri avvenuti o mancati o solo immaginati coi poeti e le loro voci; e possiamo stupire che in questo itinerario si faccia tappa con Foscolo, Carducci e Pascoli; o possiamo gioire, nel ritrovare col punto esclamativo la brillantezza ombrosa di Gozzano. Ciò che più conta è capire che operazioni simili, possibili a ciascuno, esistono perché ognuno possiede una merce universale eppure rarissima: l’inimitabile tessitura delle proprie esperienze, di ciò che ha letto e di ciò che ha sperimentato, di ciò che ha pensato e detto, e che può adesso, dopo, sempre, tentare di richiamare alla presenza, provocandolo. La poesia aiuta, nel suo essere sempre condensativa (e cioè, di nuovo, metaforica), a fare questo: a richiamare i fantasmi e a chiedere le loro ragioni.
[1] Trad. it. di Elio Nissim e Laura del Bono
[2] “Un giorno stavo ascoltando la radio in Am. Passò una canzone: «Oh, I Long to See My Mother in the Doorway». Per Dio!, mi dissi, io questa canzone la capisco. Quante volte ho desiderato di vedere mia madre sulla soglia. A dire il vero, lei si fermava molto spesso su diverse soglie a guardarmi. Un giorno se ne stava, proprio così, sulla porta d’ingresso, con il buio del corridoio alle spalle. Era il primo dell’anno. Mi disse tristemente: Se torni a casa alle quattro di mattina a diciassette anni, a che ora rientrerai quando ne avrai venti? Mi fece questa domanda senza allegria né cattiveria. Aveva dato inizio ai suoi inquieti preparativi per la morte. Non ci sarebbe stata, pensava, quando io avrei avuto vent’anni. Perciò si interrogava”, trad. it. di Isabella Zani.
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