Sarebbe bellissimo, di Paola Antonia Tasca
- epicentriblog
- 5 giu
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16 Marzo 1978. In via Fani le Brigate Rosse intercettano le auto su cui viaggiano Aldo Moro e la sua scorta, rapendo il leader della DC e uccidendo gli altri. Il fatto, il suo sviluppo e la sua conclusione si incistano irredimibili nella storia italiana, come spartiacque storico-civile, ma anche come frattura culturale (in parte ne ho parlato qui) e di comunicazione sia da parte degli agenti del terrorismo, sia da parte di chi quelli avrebbe dovuto affrontare e sconfiggere, lo Stato.
Nei due mesi scarsi che vanno dal rapimento al ritrovamento del cadavere di Moro si svolge gran parte delle vicende narrate in Sarebbe bellissimo, romanzo d’esordio di Paola Antonia Tasca appena edito da Mondadori.

In un “quartiere di poveracci” chiamato Piccola Russia – siamo A Bassano del Grappa, città a pochi chilometri da Vicenza e ai piedi delle Prealpi Venete – vivono Olga e Pietro, moglie e marito, coi due figli Tonio e Nora. Non è un periodo sereno: l’uomo è completamente assorbito dal lavoro e dalla passione politica: ha ereditato dal padre una bottega di falegnameria, ha la tessera del partito comunista e passa quasi tutto il tempo libero in sezione e nelle attività di propaganda e sensibilizzazione; Olga è vittima di una profonda tristezza che sta degenerando in vera depressione: è vittima della solitudine; è addolorata dal contrasto tra la felicità sperata da giovane e la disillusione sempre più vivida del presente; è frustrata nel suo desiderio di emancipazione.
Pietro fatica ad accorgersi del problema reale; non così i figli, Nora, la più grande, soprattutto, che cercano di aiutare e di non provocare i momenti bui della madre. A fare da prezioso supporto ci sono Angela e Caterina, sorelle di Olga: l’una, la maggiore, è ancora in cerca dell’amore e cerca di indagare il destino visitando con inesausta periodicità una cartomante in odore di ciarlataneria; l’altra, giovane universitaria, è già completamente assorbita dalla passione dell’amore complicato, visti i tempi e i luoghi, per Blanca, che da Salamanca se n’è venuta nel veneto rurale, in fuga da tante cose.
Così come per la vicenda politica ed esistenziale di Moro, anche per la famiglia protagonista di questo romanzo il futuro si deciderà in modo improvviso aprendo scenari inaspettati.
Angela aveva preso a regolarle una fibbia della salopette. Non credere, aveva aggiunto, guarda che la vita a volte può sorprenderci e darci anche di più di quello che avevamo desiderato. Nora l’aveva guardata. Sarebbe bellissimo, aveva detto.
Sono sempre affascinato dagli esordi tardi. La scrittura è una tecnica che ha a che fare con il tempo, certo: per la relazione mai pacifica tra il tempo della storia e quello del racconto; per il lavorìo a volte acribioso sulla velocità e sul ritmo della pagina; per l’alternarsi delle estasi temporali che sono il ricordo del passato, l’anticipazione del futuro, l’azione dell’attimo presente.
Oltre a questo, la scrittura è anche un’arte che accade nel tempo, che attraverso la decantazione si affina, puntualizza, chiarisce noccioli e ramificazioni. La scrittura è pensiero ed elaborazione, è riflessione e strumento di conoscenza.

Il romanzo di Paola Antonia Tasca viene da questo, da una maturazione narrativa lunga, che ha portato l’autrice a delineare – in una dinamica che non è certo originale, come potrebbe?, quella di una piccola storia privata che si confronta con, e viene ridefinita da, quella maiuscola e pubblica – i contorni della sua ricerca di scrittrice. Che in questo romanzo è, a parer mio, cristallina, e mette a tema gli ostacoli, le soluzioni, i trucchi, che si presentano e si escogitano nella pratica dei lessici famigliari, il tutto visto alla luce della consapevolezza che il benessere delle relazioni sta nel legame sincero tra le parole e le cose e nella sua comunicabilità.
La vicenda di Moro fu, all’epoca, uno spartiacque anche per quello che riguarda la comunicazione mediatica. Moro stesso fu usato come messaggio (si ricorderanno le foto diffuse dai brigatisti) e di Moro vennero rese pubbliche alcune delle lettere che andava scrivendo a varie persone (compresa l’amata moglie Eleonora); una diffusione operata sia, ad arte, dai rapitori, sia da alcuni dei destinatari. Dall’altra parte, la copertura mediatica nazionale fu enorme e tale da indirizzare l’opinione pubblica, anche rispetto alle azioni di un governo che sembrava colpevolmente immobile (è l’opinione dello stesso Pietro, protagonista del romanzo, deluso dal comportamento del suo partito, finanche infuriato e consapevole della portata enorme degli eventi). Per la prima volta, forse, l’informazione in tempo reale (il TG) assunse più importanza della informazione stampata, sacrificando alla velocità e al sensazionalismo la riflessione mediata e approfondita. A testimonianza del valore storico culturale del sequestro Moro, lo studioso di comunicazione Marshall McLuhan all’epoca espresse un’opinione di estremo rigore intellettuale, dicendo chiaramente che sarebbe stato opportuno e necessario un completo black-out informativo rispetto alle azioni delle Brigate Rosse.
È alla luce di questo che la storia raccontata da Paola Antonia Tasca prende una connotazione interessante, che la svincola dalla riduzione di un romanzo all’articolarsi della sua trama. Quello che l’autrice mette in scena, a suo modo interpretando la massima tolstojana sull’infelicità autarchica di ogni famiglia, è il confronto che ogni personaggio deve affrontare e, chissà, superare, con i vocabolari disponibili per sapere quando e cosa dire, quando e cosa tacere. E le parabole saranno varie e diverse: a partire dal lessico segreto, fatto di accenni e parole mozzicate, di Nora e Tonio, splendidamente e delicatamente descritti nel loro affratellamento, tesi a non suscitare il male di Olga: l’una supporto all’altro, l’uno capace di portare leggerezza nell’altra.
Che bello, aveva detto Nora, e aveva scosso la testa e alzato le sopracciglia, due movimenti brevissimi che significava: silenzio, va bene così (Il nostro codice morse, lo chiamava Nora. Se alzo le sopracciglia, tu taci. Se stringo le labbra, esci dalla stanza. E se non mi accorgo?, aveva chiesto Tonio quando il codice era entrato in vigore, qualche mese prima. Impossibile, aveva concluso lei, siamo fratello e sorella).
Per continuare con quella di Pietro, capacissimo di destreggiarsi tra i comunicati del partito e gli striscioni per le manifestazioni, ma vittima di assoluti sordità e mutismo dentro alle mura domestiche e rispetto allo stato della moglie, così amata e così fraintesa, e che nel momento più drammatico trova nelle parole del suo grande altro, Aldo Moro, indefettibile nel suo essere homo politicus, la possibilità di una lingua da usare con Olga.
O ancora, quella di Caterina, che padroneggia le parole dello studio, ma inciampa in quelle della vita reale e quotidiana, sognando una liberazione e scontando la pena dei legacci e dei borborigmi che contraddistinguono il vivere nelle piccole comunità, nelle periferie, nelle varie italiette.
E poi, anche se non ricordava dove l’aveva letto, era sicura che nominare le cose significava farle esistere, quindi magari bastava non parlare e i problemi non sarebbero esistiti, appunto. Perciò aveva taciuto.
Si potrebbe continuare, ma il senso, presumo, è chiaro.
Rimane assente, ed è un’assenza pesante e non casuale, Olga, il centro gravitazionale del romanzo, colei che attira a sé, anche grazie alla forza del negativo, tutte le altre, tutti gli altri. Olga è un elemento disturbante all’interno del romanzo perché lo è all’interno della famiglia, della piccola società. Olga è ciò che, nel generale silenzio di cui è portatrice – interrotto da alcune parole e alcune frasi – è oggetto dei discorsi altrui. Olga è una carne che deperisce colto spesso nella sua immobilità, che è anche costrizione, impedimento; è un corpo sul quale i vestiti non stanno, ma da cui cadono; è un volto dall’espressione spesso spaurita, dal sorriso vago, dalla dolcezza lenta e fonda. In Olga noi vediamo, per i 55 giorni del sequestro più famoso della storia italiana, una possibile e parziale rappresentazione di Moro stesso, una sorta di doppio che si muove lungo lo stesso itinerario di consunzione. Eppure, Olga è anche l’unico personaggio che in ultima analisi agisce davvero e riesce a sterzare e uscire da quello che sembra un solco tracciato per sempre. Olga è il personaggio che meglio intende e fa propria la generale consapevolezza che, dopo il sequestro e l’uccisione dell’uomo e politico Aldo Moro, niente sarebbe più stato come prima.
…uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità[1].
INTERVISTA A PAOLA ANTONIA TASCA
Una domanda introduttiva quasi inevitabile: visto il tempo in cui sei arrivata ad esordire, da quanto tempo c’era questa storia e cosa ti ha fatto dire che finalmente era pronta?
Questa storia ha risuonato dentro di me per anni. L’ho scritta quanto ho sentito che avevo vissuto abbastanza per permettermi di raccontarla, e di poterlo fare dalla
giusta distanza.
Il tuo romanzo è ambientato nel 1978 e i tuoi personaggi si muovono spesso per le strade della città. Com’è stato ripensare e ricostruire la Bassano del Grappa del tempo? Di che cosa ti sei avvalsa?
Ho utilizzato diverse fonti: quotidiani dell’epoca, documenti fotografici, racconti di
persone che hanno vissuto la città di quegli anni. Siccome mi interessava restituire
soprattutto la dimensione affettiva dei luoghi, ho scavato anche nei miei ricordi, per
ritrovarla.
Nora è un personaggio centrale nella tua storia e nella stessa dinamica famigliare. Mi ha colpito un aspetto: è una brava scolara, ed è anche una lettrice. Nel romanzo la vediamo confrontarsi con due romanzi: Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, e La storia, di Elsa Morante. Cosa c’è dietro questa scelta, mi riferisco ai tuoi gusti eventuali, e che valore simbolico hanno i due testi nel tuo romanzo?
Il buio oltre la siepe è un ponte tra la mia esperienza e quella di Nora. L’ho letto da
ragazzina ed è stato in quel momento che ho capito come la letteratura possa
essere una lente attraverso cui dipanare le complessità del vivere. La storia di Elsa
Morante invece assume un ruolo cruciale per quanto riguarda i contenuti: con le sue
figure femminili potenti e non idealizzate, offre alla protagonista uno sguardo su
altre vite che scopre essere possibili.
Sullo sfondo della tragedia di moro, tu costruisci una storia che ha, tra i vari temi, senza meno un contrasto forte tra l’anima appassionata ma cieca di Pietro e il silenzio disilluso di Olga, che sembra scivolare quasi per un moto necessario, nella depressione. Come hai lavorato per costruire questa dinamica famigliare così dolente?
Questa è una storia struggente ma io dovevo renderla raccontabile: ho cercato di
farlo sottraendo peso ma lasciandone intatto il senso più profondo, come direbbe
Calvino.
Lasciando da parte gli adulti, e guardando a ciò che dà speranza, mi è piaciuto molto lo sguardo del narratore quando si appoggia ai personaggi più piccoli; soprattutto Nora e Tonio, ma anche quelli di contorno come le compagne di classe di Nora e Cecilia, che diventa l’amica insperata. Qual è il linguaggio segreto dell’infanzia?
Quello dei bambini è un codice fatto di sfumature, di cose piccole, di un’altezza
particolare da cui si colgono certi dettagli che gli adulti spesso non riescono più a
vedere. Nel libro, Nora e Tonio si misurano con le parole difficili dei grandi, le fanno
proprie per come possono. Creano un vero e proprio codice Morse impenetrabile
alla famiglia, fatto di ammiccamenti e segni, che in qualche modo li tiene al riparo
dal mondo degli adulti.
[1] Aldo Moro, Il fine è l’uomo, Edizioni di Comunità, Roma, 2018
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