Cupio dissolvi et esse cum Christo, dicit Apostolus Tertulliano, De patientia, 9, 5
Alberto scopre che l’amico e collaboratore Lorenzo, regista cinematografico, è scomparso durante la lavorazione del film. Oltre a un, peraltro timido, tentativo di personale indagine sulle sue sorti, ne prende il posto al lavoro e nella vita privata, accanto a Caterina, la compagna di Lorenzo. Pian piano però la coerenza degli eventi e della realtà in generale sembra vacillare, spingendo Alberto a mettere in dubbio il mondo che lo circonda, sempre più screziato da crepe attraverso le quali filtra una strana luce.
Con Pensa il risveglio (TerraRossa edizioni 2022), lo scrittore trevigiano Alessandro Cinquegrani torna a distanza di dieci anni dall’esordio – Cacciatori di frodo, Miraggi edizioni – a interrogarsi sulla potenza del desiderio di scomparire, di darsi alla macchia, di osservare il mondo dal posto d’onore garantito all’inosservato. Un topos letterario e non solo, che accomuna – in un elenco necessariamente breve che viene dalla memoria del momento – Salinger e Mattia Pascal, Ettore Majorana e Wakefield, Carlos Castaneda e William Forrester.
Il titolo, che rimanda a un verso di Saba, dice sia molto del contenuto del romanzo, anticipandone enigmaticamente l’epifania e il conseguente stupore del lettore, sia di questo desiderio, prendendo a prestito dalla poesia di Saba l’immagine di un mondo in cui rimane la parola dei sopravvissuti a testimoniare il deserto.
Scomparire è un gesto estremo di auto-sottrazione, uno svicolare dalla responsabilità cui ogni vita chiama e dall’originario sentimento di colpa che ogni azione nel mondo rischia di confermare. Se guardassimo con gli occhi di Aristotele a questo desiderio, dovremmo accettarne la dicotomia: chi vi si concede non può che essere il totalmente altro: bestia o dio.
Più a fondo, se da un lato questa scomparsa interessa il romanzo perché intercetta le esistenze dei personaggi, uno come attore, gli altri come spettatori; uno come protagonista contumace, gli altri come deuteragonisti mendaci; dall’altro riguarda il romanzo come genere, e si propone come riflessione sulla natura e sulle possibilità della narrativa contemporanea, nella quale – sembra voler dire l’autore – sta scomparendo l’istanza originaria dell’arte di raccontare, la sua indefettibile costituzione gnoseologica, la sua complessità.
A questo Pensa il risveglio risponde sia con un intricato gioco di costruzione del racconto sia con una notevole sedimentazione di rimandi incrociati al già detto e al già mostrato dalle arti e al già visto e al già esistito della storia. Che sia una operazione chiara e non ingannatrice è dichiarato in vari momenti, a conferma che il piacere della lettura andrà cercato anche, se non soprattutto, nella possibilità, che ognuno da bambino si concede, di smontare il giocattolo per vedere come funziona.
In questa storia ci sono delle crepe, troppe crepe, devo stare attento, mi sento osservato, assediato, giocato, devo stare all’erta.
Tutto questo, ovvero la percezione istantanea che c’è qualcuno che manipola questa storia, mi mette una stanchezza muta negli arti e un desiderio inscalfibile di dormire.
L’attenzione dei vari narratori che si alternano nel condurre il discorso sulla storia è spesso concentrata sulle parole, su come esse configurino la realtà dichiarata, sulla possibilità che esista uno iato tra un discorso e la sua versione riportata da altri e su quanto questa possibilità sia indecidibile. La questione si lega a quanto detto sopra sulla posizione dell’autore rispetto allo stato di fatto del romanzo, e sull’insignificanza di limitarsi a dire il reale.
…chissà quante di queste parole sono effettivamente uscite dalla bocca di un vecchio moribondo e quante sono state modificate passando da persona a persona fino a diventare un racconto suggestivo e con un certo stile.
E io penso… che anche in questo caso… la manomissione delle parole è evidente, che c’è qualcuno che manomette le parole, inserendo nel testo un suo stile, una sua cifra, che non può essere di un vecchio allevatore di montagna. Ma manomettendo lo stile manomette anche il pensiero… com’è possibile cambiare le parole senza mutare il significato delle parole stesse?
Connessa con la riflessione sulla lingua e con l’uso più o meno manifesto delle citazioni e dei riferimenti cinematografici e letterari, c’è un’interessante ipotesi relativa alla possibilità di smarcarsi da un lato dalla tradizione e dall’altro dalla sovrabbondanza di luoghi comuni nel fare letteratura.
Anche qui Aristotele ci aiuta, dapprima con una affermazione generale che riguarda tutte le technai, le arti, che agiscono in vista di un fine e in rapporto specifico con la natura:
In generale, talvolta l’arte porta a compimento quanto la natura è impossibilitata a fare, talaltra imita la natura. Se dunque le cose che sono secondo arte sono fatte in vista di un fine, è chiaro che anche le cose che sono secondo natura lo sono. Infatti il rapporto tra ciò che viene dopo e ciò che viene prima opera nello stesso modo in entrambe. [Fisica, II, 8, 199° 15-20, trad. di Luigi Ruggiu]
E poi, relativamente alla dimensione artistica come noi la intendiamo, sottolineando che la sua specificità sta nell’essere piacevole e non strumentale e, più ancora, piacevole grazie alla sua virtù mimetica (l’arte è mimêsis, le sue opere mimêmata, e l’artista è un mimêtês).
Il poeta è un imitatore come il pittore ed ogni altro artista, e perciò la sua imitazione deve sempre esser rivolta ad uno di questi tre oggetti: o alle cose quali erano o quali sono, o alle cose quali gli altri dicono che sono o quali sembrano, o alle cose quali dovrebbero essere. [Poetica, 25, 1460 b 8-12, trad. di Ferdinando Albeggiani]
Ogni opera d’arte sembra dunque, per Aristotele, assomigliare ad altro, sia esso immaginato (finto) o esistente, a conferma anche della peculiarità, vista sopra, di portare a compimento ciò che la natura non può fare.
Come questo interseca e chiarisce una linea di riflessione del romanzo di Alessandro Cinquegrani? Nel passo seguente assistiamo a una scena che vede coinvolti il protagonista e voce narrante principale e due poliziotti che si presentano a casa sua e lo interrogano circa la scomparsa dell’amico Lorenzo:
Non capisco come uscire da questa situazione, on capisco cosa vogliano da me. Sembrano loro usciti da un film, non certo io. E mentre mi dico questa frase mi ricordo improvvisamente dove li ho visti, o almeno credo di averli visti. Era nel film precedente di Lorenzo, erano loro, i due poliziotti, è possibile? Eppure assomigliano tremendamente, curiosamente, terribilmente proprio a loro, a quei due poliziotti. E ricordo il giorno in cui preparavamo la scena e Lorenzo ha detto Non dovete assomigliare a poliziotti reali, dovete assomigliare ai poliziotti dei film. Ha detto: Dovete rispondere alle abitudini visive dello spettatore, non imitare situazioni reali. Ha detto: Il cinema imita il cinema, non imita la realtà.
La commistione tra elementi reali e immaginari è evidente già così, ma con sguardo retrospettivo, e cioè dopo aver finito il libro, passi come questo acquisiscono ancora più significato e sottolineano l’incessante messa a tema del ruolo dell’arte (narrativa e cinematografica in primis) come forma mimetica, nel senso chiarito da Aristotele. Sempre Aristotele del resto, parlando dei personaggi, nel capitolo 15 della Poetica dice:
In quanto alla composizione dei caratteri quattro sono le qualità di essi a cui bisogna badare, ed una, anzi la prima, è che essi siano buoni. […] La seconda qualità del carattere è che esso sia appropriato. […] Terza qualità è la rassomiglianza… Quarta proprietà è la coerenza. [Poetica, 15, 1454a 16-27, trad. di Ferdinando Albeggiani]
Rassomiglianza, la terza qualità, è un termine lasciato volutamente vago perché si riferisce alla conformità sia ai personaggi storici, sia a quelli della tradizione e del mito, rinforzando ancora il concetto che l’arte pesca dal reale e da ciò che altri hanno già detto e scritto. Lo vediamo nel passo succitato, dove la richiesta di Lorenzo è che, nella recitazione, gli attori si sforzino di imitare i propri omologhi di altri film e non quelli reali.
Nel romanzo di Cinquegrani la sottile linea di demarcazione tra realtà (romanzesca) e finzione (rispetto a questa realtà) è poi complicata a livello di eventi e di esistenti, per usare la terminologia di Chatman, dalla presenza di corposi addendi provenienti dalla storia, e cioè dal reale extra diegetico: Hitler, Speer e le sue memorie, Mengele e i suoi folli esperimenti sui gemelli, Sami Modiano e la sua lotta per la memoria, Mussolini e la casa donatagli e mai abitata a Rodi etc.). I livelli sono dunque e necessariamente molteplici, così come le possibili letture. Onnipresente è il magistero del tempo, del quale Alessandro Cinquegrani illumina, attraverso proprio un personaggio preso a prestito dalla realtà, il sopravvissuto al lager Sami Modiano, una precisa e salvifica funzione:
Il tempo, ragazzo mio. Stare lì dentro, in quel luogo fatiscente, è come confermare a se stessi che il tempo ha fatto il suo corso, il tempo ci ha salvati. Il Reich millenario sono mura che si sbriciolano, che perdono l’intonaco, l’impero è in macerie. Il tempo è il nostro maggiore alleato, perché è inconfutabile e clandestino.
Così come Modiano, sopravvivendo al Lager, sconfigge nel tempo la folle impresa votata alla distruzione, così nel tempo, le forme linguistiche resistono alle contrapposte pressioni e ai rapidi mutamenti ed impoverimenti, per continuare a significare dove sta il bene, alle coscienze che pensano il risveglio.
L’uomo, questa piccola imperfezione che screzia l’universo, è l’impurezza che genera vita, storia, racconto; l’unico essere animato che, scelga la luce o il buio, rimanga o scompaia, accetta la tracotante responsabilità di leggere il mondo.
Quello che è stato, si dice, ha un senso.
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