top of page

Recensione a Camere oscure, di Ernesto Aloia




It is impossible to express the beauty [of the camera obscura image] in words.

The art of painting is dead, for this is life itself: or something higher, if we could find a word for it[1].

— Constantijn Huygens, in una lettera del 13 Aprile 1622


Nel 1435 Leon Battista Alberti, figura poliedrica e prototipo dell’Umanista rinascimentale

per il suo interesse in numerosissime discipline, scrisse il De pictura, dove tra le atre cose diede la prima definizione di quell’artificio ottico rivoluzionario che fu la prospettiva[2]. In quest’opera, che era tanto un manuale pratico per il pittore, quanto un testo sulle teorie che sostanziano l’arte, Alberti parla del quadro come di una intersezione piana della piramide visiva, e come una finestra aperta sul mondo, sugellando da lì in poi un modo unico, o quasi, di guardare la realtà e di riprodurla.


Albrecht Dürer - Disegnatore in atto di disegnare un liuto, 1528

Poco più di un secolo dopo, un altro uomo di molti interessi, in bilico tra magia,

filosofia e scienza, Giambattista Della Porta, pubblica la prima edizione della sua opera più famosa, Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium, nella quale si occupa di moltissimi argomenti, tra cui l’ottica. È lui a indicare l’utilizzo a fini pittorici di un’invenzione già nota dall’antichità e usata prevalentemente per osservare le eclissi senza danno per gli occhi: la camera oscura, ovvero una stanza buia (che andrà nel tempo riducendosi a una scarola portatile) su una parete del quale viene praticato un foro cui la luce passa per andare poi a ricreare sulla parete di fronte l'immagine rovesciata del oggetto esterno colpito dai raggi luminosi. Leonardo Da Vinci ne dà in un suo scritto una descrizione vivida ed entusiastica.

Secondo Dalla Porta, che torna a più riprese sull’oggetto nelle varie e sempre più estese edizioni dell’opera, la camera oscura permette anche a chi non conosce l’arte pittorica di dipingere[3]; essenziale sarà il miglioramento dell’immagine iniziale, fioca e storta, attraverso l’uso di lenti e specchi.


Un’immagine (ri)creata all’interno di una camera oscura ha caratteri che la rendono diversa tanto da un dipinto quanto da una fotografia. Intanto è rovesciata sia dall’alto al basso, sia da destra a sinistra; poi, la sua luminosità è molto fioca e l’osservatore entrato nella stanza scura deve attendere alcuni minuti prima che l’occhia riesca a percepire e dare significato a ciò che vede.

Sarà Johann Zahn, nel 1685, a mettere a punto una camera oscura reflex (il principio è quello poi finito nelle omonime macchine fotografiche che cominciarono a essere prodotte verso la fine del diciannovesimo secolo): uno specchio inclinato di 45° posto sulla parete dove l’immagine viene proiettata ristabilendone il corretto orientamento. Uno vetro ulteriore disposto in orizzontale permette di ricalcare l’immagine.

 


Athanasius Kircher - Camera obscura, in Ars magna lucis et umbrae, Roma 1645

Questi due strumenti visivi, di cui si è dato giusto qualche accenno, servono a introdurre quello che si dirà del bel racconto lungo di Ernesto Aloia, pubblicato da Hopefulmonster editore, nella collana Pennisole diretta dallo scrittore Dario Voltolini: sia per l’esplicito riferimento del titolo – Camere oscure – sia per ciò che ci dice il testo, in quanto storia e in quanto narrazione.


A Castagneto sorge dal 1930 una casa che nel tempo ha visto farsi vicino il paese che andava crescendo e passare vari abitatori, legati per lo più da vincoli di parentela se non di semplice cura. Ci torna in visita, nel presente indeterminato del racconto, l’autore ora che la casa è disabitata ma saltuariamente frequentata, oltre che da lui, dal cugino Jacopo col quale condivide “solo qualche gioco d’infanzia e la passione per la corsa come forma di meditazione”. La visita di cui siamo lettori diviene occasione di visitazioni: nel dispiegarsi della perlustrazione dello spazio geografico abitativo, fatto di chiaroscuri obnubilanti ed evocativi, si alternano gli affioramenti di alcune figure appartenenti al passato, che appaiono come baluginii chiari e distinti, come le idee cartesiane, eppure giocoforza irreali nell’epoca che vuole l’immagine e la presenza segno del vero.


Non a caso il racconto si apre (con un ekphrasis) e si chiude (con una sorta di ironia) parlando di una fotografia scattata nel 1944, ora parte dell’archivio dell'Imperial War Museum di Londra, e che ritrae la casa isolata, sbrecciata dai bombardamenti, requisita come stanziamento militare. È la fotografia, intesa come oggetto-immagine singolo e intesa come tecnica-arte riproduttiva, a fare da costante riferimento simbolico del testo perché sempre in gioco c’è lo statuto della immagine, cioè della vista, e il suo rapporto con il mondo.

 

Sarà allora più chiaro per quale motivo siamo partiti dalla prospettiva e dalla camera oscura: sono strumenti che hanno aiutato a codificare il nostro rapporto con l’immagine, l’una stabilendo il modo in cui guardare alla realtà (punto di fuga, centralità, rapporti di dimensioni degradanti, ecc.), l’altra alludendo al fatto che si potesse copiare la realtà in modo fedele, producendo dunque qualcosa di (altrettanto) vero. Con una scrittura amorevole, misurata senza essere laconica, capace di modulare i toni a seconda del tempo e del rito rammemorante, Aloia ci conduce in una wunderkammer personale e famigliare, dove lo straordinario e l’anomalo, sono tanto presenti (le serrature montate al contrario, la botola segreta) quanto immaginati (le apparizioni che si fondono coi ricordi e dai ricordi si staccano per farsi quasi sostanza, l’uomo che non c’era, la vita segreta dell’acqua).

 

Sulla scorta di Bachelard, citato al principio, l’autore racconta di una casa che, come

tutte, si fa mise en abîme del mondo, anzi, di “una galassia intera di destini incerti, ambigui”, da cui niente è escluso, soprattutto i terrori che stagnano nel buio delle cantine e che, giusta la necessità di dare il nome alle cose, ci fa più comodo chiamare diavolo.

 

Per tutti i bambini le finestre sono gli occhi della casa, e cosa si dice degli occhi?, sono le finestre dell’anima. La casa è anima e corpo. Ha uno scheletro, una pelle, è innervata di cavi e tubi e le stanze sono i suoi organi. Nei miei sogni le sue scale scendono sempre, anche quando salgono, e se mi inerpico nel sottotetto mi sto calando dove tutto ha inizio.

 

Per contrastare questa attrazione ferale esercitata dal buio, l’intero racconto si fonda su una necessità scopica a più livelli: quella dell’autore/narratore, che anatomizza la casa, vede alcune persone emergere dal passato e di queste ci fa storia; e quella dei personaggi stessi colti, ciascuno a suo modo, nell’esercizio di una qualche strategia della visione. Come la piccola Maria che si osserva allo specchio, appena cresimata, senza riconoscersi nell’immagine che vede e tuttavia capace di chiedersi “cosa farò quando sarò viva?”; o Rino, che alterna lunghe cadute depressive allettato a momenti di pura buffoneria, che lo vedevano al centro della scena paesana in qualità di attore/imitatore; o ancora Olga che, al ritorno inaspettato di Adriano dalla prigionia prussiana, cade in una disperata guerra con i fantasmi che le si parano di fronte e che non può non vedere, le “altre donne” con le quali l’uomo è necessariamente andato mentre era via.


Realtà e immaginazione percorrono questo libro, lo innervano e danno materia alla

scrittura coltissima e precisa di Aloia che, attraverso il racconto, dà la misura anche di un altro aspetto, affatto secondario, e che riguarda ciascuno di noi. Viviamo immersi in un ambiente e in un linguaggio. Più agiamo sul primo più ne facciamo un territorio; e più lo descriviamo, più ne tracciamo una mappa significante. Questa mappa non è mai neutra, ma risente del modo in cui altri prima di noi hanno parlato dei luoghi, ne hanno fatto racconto, non importa ora quanto letterario esso sia stato. Ma è doveroso ricordare, ci dice l’autore, che ciò che vediamo non lo vediamo mai per la prima volta. E nel testo sono molte le tracce, esplicite e non, di questa rendicontazione poetica: Stephen King, Poe, Kafka, Fenoglio, D’Arzo, James, Salinger, sono i referenti di questa stratificazione descrittiva, tanto che al termine della lettura rimane la sensazione che, oltre a una catabasi famigliare, Camere oscure sia anche una riaffermazione del valore performativo della lingua letteraria, che nel dire crea e consegna a una possibile eternità ciò che nel vagolare effimero delle cose andrebbe incontro al buio della dimenticanza.


[1] È impossibile esprimere la bellezza [di una immagine della camera oscura]. La pittura è morta, perché questa è la vita stessa: o qualcosa di più alto, se mai potessimo trovare parola per esprimerla.

[2] Dal Quattrocento in avanti si intende per perspectiva naturalis l’ottica, o altrimenti detta scienza della visione; la perspectiva artificialis indica la tecnica che simula su un piano bidimensionale lo spazio tridimensionale; lo fa attraverso regole che permettono di diminuire la dimensione degli oggetti al crescere della distanza.

[3] Di qua nasce che ciascheduno il quale non sappia l’arte della pittura, potrà con uno stile lineare l’immagine di qual si voglia cosa.




51 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page