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La nostalgia che avremo di noi, di Anna Voltaggio



La nostalgia che avremo di noi (Neri Pozza editore, 2023) è il romanzo d’esordio di Anna Voltaggio, che da anni frequenta il mondo dell’editoria, soprattutto come addetta all’ufficio stampa diprestigiose case editrici.

Si tratta, più precisamente, di un romanzo per racconti: sono tredici storie, ciascuna intitolata al personaggio principale, che condividono ora un’ambientazione, ora un evento, ora uno o più personaggi, di colta in volta principale o secondari.


C’è dunque un’architettura precisa a tenere assieme i vari testi, in modo però soltanto accennato, come se fossimo di fronte a un concerto jazz che si articoli soprattutto per assoli.

Una delle chiavi più funzionali alla lettura della raccolta si trova nel primo racconto, intitolato Clara. La protagonista frequenta un uomo sposato, e il racconto la intercetta la sera di un appuntamento con lui; si alternano i pensieri della donna, le sue ricostruzioni delle azioni del compagno (immaginate, prima che arrivi, descritte, mentre sono assieme), e infine le prescrizioni della psicologa che la donna vede, e che entrano nel racconto alternate all’analisi che lei fa della serata; è dunque un racconto che passa attraverso un prisma e che procede per continui movimenti eccentrici rispetto al passo diegetico; alla psicologa che le consiglia di mantenere il focus, l’attenzione, la protagonista oppone una continua diversione di piani (la cronaca, la riflessione, l’immaginazione, il ricordo), smembrando questo focus in tanti rivoli attentivi che sono poi quelli che caratterizzano la raccolta vista da una prospettiva generale.


L’intera raccolta dunque è l’esito del passaggio dello sguardo gettato dall’autrice attraverso un prisma, che lo devia verso molteplici direzioni consentendole di cogliere i suoi personaggi in un momento di tensione che caratterizza una qualche forma di relazione che hanno con altri, e che spesso è una declinazione di quella forma sublimata di solitudine che è l’amore. Nina è trai più rappresentativi dell’intera raccolta: la protagonista, è una donna i cui “capelli non sono più né biondi né scuri”, fa le pulizie in ospedale, è sposata:


Mio marito lavora come corriere per Amazon, esce alle sette e ritorna alle otto di sera. Non ci parliamo mai, comunichiamo. Non abbiamo figli perché non possiamo averli e io poi non li ho mai voluti dei figli, lui ne parlava i primi anni ma ora non più. Siamo stanchi l’uno dell’altra ma ci vogliamo bene e non mettiamo mai in discussione la vita.

 

Ha il turno dell’alba nel reparto psichiatrico, dove “non si fa in tempo a liberare un posto che subito si occupa”. Il nuovo ospite che incontra è tutto scombinato, incolto, di un’età indefinibile; pare assente e inconsapevole, più che pazzo e nei giorni in Nina nasce e cresce il desiderio di curarlo e insieme il bisogno di vederlo, di iniziare con lui una forma di relazione che non passa per la parola pronunciata, ma per quella scritta, e che la porta a pensare uno dei pensieri più belli e veri quando si parla d’amore, così rari:

 

Aspetto come se dovesse dirmi qualcosa ma lui non dice niente, mi guarda e basta. Mi viene il dubbio che sia muto. Leggo il titolo del libro che ha poggiato sulle gambe, è un romanzo, è Un romanzo russo, e penso che me lo devo ricordare, perché voglio leggere quello che lui legge. 

È in questo spazio simbolico che l’amore accade e le storie di Anna Voltaggio raccontano con uguale compostezza il momento esatto in cui si intravedono questi spazi e come accade che si perda questo kairos, lasciando che tutto scivoli, che il presente indicativo di un momento prima, diventi in così poco tempo, l’imperfetto di una storia sentita tante volte:

 

Gli scatoloni sono accatastati a ridosso del muro. Una valigia è accanto al letto, allungo la mano e tocco i maglioni piegati alla meno peggio, i pantaloni con la cintura ancora nei passanti, poi rimetto la mano sul petto, accanto all’altra. Dormo sempre come se fossi morto, come i cadaveri nella bara. Supino, con le mani incrociate sul cuore. Lisa lo trovava inquietante e ci rideva sopra.

 

  A metà tra l’organicità e la complessità del romanzo e la spezzettatura di una normale raccolta di racconti si situa la forma ibrida cui Anna Voltaggio si è dedicata per il suo esordio; atto volontario, naturalmente, e chiarito se mai ce ne fosse bisogno dal lavoro di riscrittura che alcuni racconti hanno subito in vista di questo progetto e dopo essere già stati pubblicati su riviste online nel corso degli anni.


In un suo recente articolo uscito su Domani, Luca Ricci parla dello stato della narrativa breve in Italia, riconoscendogli una salute buona, un’energia fresca; non credo di sbagliare se dico che per simile forma ibrida queste raccolte rassomigliano alle serie tv, dove un filo conduttore generico e non necessariamente troppo sviluppato tiene assieme episodi in sé conclusi, permettendo una fruizione più libera, non necessariamente lineare, e garantendo allo stesso tempo una immedesimazione che, seppur meno intensa di quella che accade durante la lettura di un romanzo, è tuttavia presente e più consistente di quella esperibile in una raccolta di racconti slegati tra loro.


La nostalgia che avremo di noi è un’opera positivamente delicata, in cui ciascuno può cogliersi raccontato in uno scorcio di tempo che si fa piccolo, piccolissimo, adombrato dalle infinite potenzialità che ogni scelta preclude e che rimangono come piccoli segni nelle stanze che teniamo per noi.



INTERVISTA AD ANNA VOLTAGGIO



Foto di Andrea Cardoni

Anna Voltaggio è nata a Palermo. Vive a Roma e lavora come ufficio stampa specializzato nel settore culturale. La nostalgia che avremo di noi è il suo primo romanzo.








La prima è una domanda generica. In un suo recente pezzo pubblicato su Domani, Luca Ricci parla della narrativa breve in Italia, tracciandone uno stato di salute non così cattivo, anzi. Anche tu rientri tra gli autori citati; per giunta, esordisci con una raccolta, cosa non così comune. Quali sono i caratteri e dove la vitalità del racconto?


Sono sempre stata una lettrice di racconti, oltre che di romanzi. La forma breve, che poi è quella che sento più congeniale nella scrittura, ha sempre avuto su di me un effetto molto forte, probabilmente perché in uno spazio breve non c’è possibilità di periodi di passaggio, di costruire troppe attese o di diluire concetti: tutto avviene in modo feroce, ogni parola acquista un peso determinante per le intenzioni di chi scrive e il ritmo della narrazione non può permettersi sbavature, i dettagli assumono un ruolo di primo piano. Un racconto è come un filo sempre teso e questo rende la storia, quando funziona, indimenticabile.


I racconti sono, in varia misura, intrecciati tra di loro da elementi disparati: comunanza di luoghi, ritorno in una storia, come attori o come oggetto di pensiero/discorso, di personaggi già presenti in un’altra, riferimento di fatti già narrati altrove e così via. Se non sbaglio, alcuni dei testi erano già comparsi in forma diversa su rivista (penso a Tommaso, a Cartesio), quindi non tutto è stato scritto ex novo. Vorrei chiederti come è nata l’idea della raccolta e cosa ti ha spinto verso una forma che definirei indefinita di romanzo per racconti.


Questo libro si è sedimentato nel tempo, i racconti apparsi su alcune riviste letterarie (minima&moralia, Nazione Indiana) erano in una fase di studio e sono stati rivisti e ampliati per essere poi inseriti in questo libro. L’intenzione, infatti, era quella di comporre un prisma. Ogni racconto è indipendente e conclusivo, per me era importante riuscire a mantenere l’autosufficienza della storia breve, ma al tempo stesso si ragiona su un concetto unico perché desideravo che ogni storia fosse la parte di un tutto.

I personaggi si affacciano nei racconti degli altri e tra loro esistono legami familiari, sentimentali, di amicizia. In alcuni casi tornano anche personaggi comprimari che non assumono mai il ruolo di protagonisti ma partecipano in più di un racconto, con diversi ruoli. Gli uomini e le donne di queste storie hanno in comune l’età e un’irrequietezza che agita il loro mondo interiore. A grandi linee hanno tutti superato i quarantacinque anni, il passato e il futuro assumono per loro nuovi significati, nuovi pesi.


Anche il punto di vista assume un ruolo importante in un racconto. Nei tuoi testi c’è una leggera preferenza per la prima persona, ma non così netta; soprattutto, mi pare che la scelta non sia determinata dal genere di appartenenza del protagonista; cosa ha guidato questa decisione che rimane, a mio avviso, una delle scelte più critiche per un narratore.

Ho scelto di usare sia la prima che la terza persona perché m’interessava assumere un punto di vista con diversi gradi di distanza rispetto ai temi che ho scelto di esplorare, mi sembrava che alcuni personaggi andassero guardati da una prospettiva diversa, con uno sguardo più esteso. Probabilmente perché vivono i loro stessi sentimenti, legati a uno specifico momento della loro vita, con più difficoltà. Vita, per esempio, va incontro a un dolore che non vorrebbe attraversare, rimugina su altre cose per posticipare il momento che sarà costretta ad affrontare, Cartesio e Iole vivono la propria vita con una dose di diffidenza e paura. Per loro mi serviva quella maggiore distanza. Con altri personaggi il mio livello di empatia, di compassione, è più forte, mi calo nel loro sguardo, indifferentemente che siano uomini o donne. Ho cercato di trovare una misura per raccontare i personaggi maschili e quelli femminili, m’interessava molto dare voce a riflessioni maschili su nostalgie e desideri, cercare il fondo di una tenerezza e di una fragilità diverse da quelle delle donne che per ovvie ragioni sento più vicine e comprendo meglio.


Il titolo del libro viene preso da una frase che Viola scrive a Tommaso nel racconto omonimo (di lui). Nella recensione ne parlo, ma vorrei sapere che cos’è per la nostalgia.

La nostalgia del titolo ha un’accezione doppia e il noi si riferisce al rapporto con noi stessi e al rapporto con qualcun altro, un legame rimasto confinato nel passato, incompiuto o irrisolto, che per questo assume nell’intimità dei personaggi una dimensione ingombrante, la potenza di un fantasma che non si può ignorare. Nel racconto di Tommaso – credo – che queste due accezioni coincidano. Viola scrive sul suo corpo la frase nel breve attimo che la unisce e la separa per sempre da Tommaso.

La mia scelta è mossa dal rapporto che questi personaggi hanno con il loro passato che – come dicevo precedentemente – ha acquisito un nuovo peso, perché è aumentato (in numero di anni) rispetto al futuro che possono ancora vivere; porta con sé dolori, ferite, gioie, le scelte fatte e quelle non fatte. Gli uomini e le donne del libro fanno i conti con l’amarezza di quello che è finito di loro stessi ma non per questo perdono calore; al contrario, li muove verso il futuro una vitalità profonda, appassionata e in qualche modo nuova: non hanno più l’esigenza di dover compiere qualcosa ma comprendono di avere un tempo unicamente da vivere. Per questa ragione il desiderio è il sentimento che li guida più spesso in queste storie.


Chiudo con una domanda nuovamente generica. Tu hai un’attività legata da tempo al mondo dell’editoria, principalmente in quello che si chiama ufficio stampa. Quali sono gli aspetti più importanti e significativi nel mettere in contatto autore e libro da una parte e lettore dall’altra? E come diresti che sta la narrativa italiana?

Credo che la narrativa italiana stia meglio del mestiere dell’ufficio stampa che diventa sempre più complicato e frustrante.

Questo lavoro, nel settore editoriale, fatica ad allineare la promozione dei libri con l’epoca in cui viviamo; negli ultimi dieci anni la diffusione della carta stampata, che è stata sempre il principale mezzo per mettere in relazione i libri con i lettori, è progressivamente calata e difficilmente le ultime generazioni scelgono di acquistare un giornale. La televisione – che in passato ha dedicato trasmissioni ai libri e al dibattito culturale – non sembra trovare più nessuna formula per ospitare scrittrici e scrittori, tranne in rari casi.

Il web e i social che invece aumentano il loro potere di comunicazione, hanno il grande limite di essere così tanto in linea con la contemporaneità che poggiano su un’attenzione limitata e dunque non consentono l’approfondimento necessario per parlare di libri in modo sensato. Si raccolgono informazioni che durano qualche ora e sono subito soppiantate da nuove informazioni.

In linea teorica gli aspetti più importanti per mettere in relazione libri e lettori sono una corretta veicolazione dell’informazione tenendo conto del contenuto del libro: individuare quindi i lettori di riferimento e gli spazi culturali dei mezzi di comunicazione più adatti a quei contenuti specifici.

Credo che in questo momento storico i Festival letterari e le librerie più attive e capaci di costruire una comunità, siano gli spazi più efficaci per mettere in relazione chi scrive e chi legge.

Credo poi che bisognerebbe immaginare e sperimentare nuove formule di incontro tra i libri e i lettori non confinando questo momento alle tradizionali presentazioni ma cercando un coinvolgimento maggiore e più attivo tra artista e pubblico.

Molti autori, per esempio, negli ultimi anni costruiscono monologhi letterari legati alla propria poetica che portano in scena costruendo un legame più profondo e immediato con chi ascolta. Questa strada, per esempio, mi sembra particolarmente interessante perché abbraccia il concetto di intrattenimento e di piacere liberando la letteratura dall’idea (ancora ottusamente diffusa in questo Paese) che sia per pochi, pervicaci, appassionati.




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