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Recensione a Il grande cacciatore (e altre violenze), di Carlo D’Amicis



Non mi ero ancora resa conto di avere una nuova vicina, finché un pomeriggio, dalla finestra del bagno, non la vidi a letto con il mio fidanzato.

 

Una donna, infermiera, scopre in modo improvviso e indubitabile che il fidanzato la tradisce con la vicina di casa, Marylin, una ex-modella di intimo con la quale l’uomo, Adelmo, sente una sintonia profonda, dovuta principalmente alla comune credenza rispetto all’esistenza di esseri extraterrestri, come la confederazione intergalattica degli Angeli consolatori.

L’epifania, lungi dal turbare l’equilibrio della coppia, fondato sul comune piacere di guardare Quark in tv, genera una nuova infrastruttura a quattro (lei porterà in casa anche un cane randagio incontrato nel parcheggio dell’ospedale dove lavora), nella quale la protagonista può fare per due persone e un animale ciò che prima era riservato al solo Adelmo, una sorta di custodia e tutoraggio, implicante supporto, cura, attenzione. Ma il congegno è destinato a incepparsi e rompersi in modo inaspettato.

 

Terrarossa Edizioni ripubblica, nella sua collana Fondanti, Il grande cacciatore (e altre violenze), racconto lungo di Carlo D’Amicis uscito precedentemente per duepunti edizioni nel 2011.

Non si tratta di una semplice ristampa; D’Amicis spiega, nella sua prefazione al libro, che il lettore si appresta a leggere un’opera che è ad un tempo uguale e diversa. Da un lato, infatti, l’autore riconosce di essere intervenuto in fase di riscrittura modificando la trama e i personaggi, cosa non da poco in tutta evidenza; dall’altro si rallegra del fatto che il romanzo nella sua essenza è rimasto inalterato, a significare che esiste qualcosa, in una qualche oltranza poetica, di inscalfibile e solido.

È interessante questo aspetto sollevato da D’Amicis, che ci permette di accennare in breve a un discorso letterario che, se pure in parte trascende il romanzo in gioco, di questo offre una chiave di lettura utile. Un testo vive una sorta di esistenza schizofrenica che viene dall’integrazione inevitabile di due elementi: da una parte c’è l’essere sempre e soltanto se stesso, e cioè l’insieme delle parole che si fanno frasi che si fanno paragrafi e capitoli; delle immagini suscitate; delle figure retoriche usate; della fabula e dell’intreccio; dell’architettura di paratesto e testo. Dall’altra c’è la complessa e varia attività di ricezione da parte del lettore, dei lettori che nel tempo si accostano a quel monolite testuale e, per così dire, completano l’opera iniziata dallo scrittore. Ne viene allora la proliferazione dell’opera (che è potenzialmente una per ogni lettura), ma anche il fatto che ogni lettura può, e spesso così accade, risentire delle letture precedenti, che dunque caricano il testo di senso, che si fa sedimentazione di reazioni: dalla semplice dicotomia piace/non piace, alle letture critiche, alle più approfondite interpretazioni.

La letteratura è viva perché il rapporto tra testo e lettori è dinamico, indomabile, agonistico.


Se a questo aspetto endemico aggiungiamo che per necessità uno scrittore non può scendere per la seconda volta nello stesso fiume dell’ispirazione, giusti il tempo passato e l’accumulo di esperienze e le piccole o grandi modificazioni della propria poetica e visione del mondo, ecco che ritornare a un proprio scritto in vista di una nuova edizione difficilmente lo lascerà intonso.

La virata principale è in questo caso relativa al desiderio narrativo, che nella prima versione era maggiormente concentrato sulla presenza della bestialità nell’umano; questa dimostrazione cede il posto in questa riedizione alla riflessione sul rapporto tra bene e male, sulla natura fragile e sottilissima del confine che li separa, sulla consustanzialità tra stupidità e crudeltà.

Il meccanismo narrativo costruito da D’Amicis per la sua tragicommedia urbana e popolare, si regge su un uso cristallino dell’ironia, a cui si affianca, in qualche modo essendone alimento, una sapiente nitidezza stilistica che, nel fuggire qualsiasi eccesso retorico e giudizio morale, lascia nel lettore il sentimento della inevitabilità di una dimostrazione geometrica.

 

Ovviamente noi con il camice bianco, impegnati ogni giorno a curare il mondo e a tenerlo pulito, rappresentiamo il bene. Ma certe volte, quando mi sporgo sulla sofferenza e sulle puzze che ne derivano, ho la tremenda sensazione che la scelta di stare dalla parte giusta dipenda solo dal fatto di godere, in questo modo, una prospettiva migliore su quella sbagliata. Che osservare il male, insomma, mi piaccia molto di più che fare il bene.

 

Il contrasto tra bene e male è più accettato come regola del gioco che non assunto come metro di giudizio. Il tradimento, il comportamento che ne deriva, l’approfittarsi della disponibilità altrui non sono che fatti tra gli altri, linee di tensione tra gli esseri umani che permettono di definire l’area di svolgimento dell’agone, e dove ognuno mette in palio la dichiarazione, l’accertamento e la soddisfazione delle proprie priorità: il desiderio di essere accuditi e di godimento fisico, per Marylin; il perseguimento di un ideale dell’io totalmente scollato dalla realtà, per Adelmo; la presunzione di essere indispensabile per la protagonista.

 

Fuori pioveva. Nell’attraversare la strada, notai che qualcuno aveva lasciato sul marciapiede dei cartoni accanto ai cassonetti. Infilai anche quelli nel bidone della differenziata e poi mi avviai verso l’ospedale. A tutto io, mi dissi. Devo sempre pensare a tutto io.

 

Nella visione dichiaratamente epochetica e curiosa della protagonista, che è voce narrante, Adelmo emerge per una comicità involontaria e una inettitudine che, se non lo rende simpatico, gli garantisce tuttavia una sorta di immunità, almeno finché la sua stupidità non rende evidente il pericolo insito quando si fa contigua alla crudeltà.

Così Marylin è una sorta di anima bella, compresa in una semplicità confusa e incline a cercare complici e despoti.

Se, come viene pensato dalla infermiera, contraddire la gente è sempre una perdita di tempo, altrettanto sembra esserlo andare in cerca di ricostruire i momenti distinti che compongono un avvenimento e cercare di stabilire dei rapporti più complessi di quelli cronologici, ad esempio causali.

Non serve perché, allo stesso modo della contraddizione, la vita nel frattempo va avanti e ciò che accade rischia di rendere anacronistica qualsiasi nostra scoperta o deduzione. In ogni caso, dalla storia non si impara niente di utile, niente che valga a precorrere i potenziali pericoli, riparare dalle improvvide azioni umane.

Lungo questa traiettoria scopica quasi assoluta, che viene dalla capacità di osservare le cose della protagonista in modo selettivo, distaccato, privo di continuità, le piccole miserie quotidiane si fanno nitide e la dipendenza si mostra come il liquido glutinoso capace di tenere in vita le relazioni umane che sarebbero altrimenti destinate a soccombere, ridotte ai loro costituenti primi: noia, solitudine, incomprensione.

È un bene insomma che Carlo D’Amicis, autore prolifico di romanzi letti e benaccolti, sia tornato a confrontarsi con un suo testo e bene che esista nel frastagliato territorio editoriale, spesso d’indole consumistica, chi si dedica alla riscoperta e alla renovatio libri. Da tempo, soprattutto in Italia, l’interazione tra vecchio e nuovo ha fatto più fiori che spine.

 

 

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