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L'architetto e l'oracolo, di Gino Roncaglia

Di seguito una recensione del libro appena uscito per Laterza, che segue ed estende i risultati de L'età della frammentazione (Laterza 2018).



Per iniziare


Nel romanzo Gargantua e Pantagruele, François Rabelais (1494-1553), tra i principali esponenti dell’Umanesimo francese, mette in scena contemporaneamente: una profonda e gustosa satira delle ipocrisie del suo tempo, una critica severissima al nozionismo e alla stagnazione gnoseologica impliciti, a suo modo di vedere, nella cultura medievale, e una adesione totale alla cultura umanistica. Nella storia, ciò è evidente ad esempio nel confronto tra il gigante Gargantua, riempito come un otre dai pedanti maestri intrisi di sapere e modi medievali, che lo lasciano ignorante e inetto, e il paggio Eudémone, educato invece secondo i canoni dell’Umanesimo. Il padre di Gargantua lo fa dunque seguire dal maestro Ponocrate, umanista, che lo libera dalle zavorre acquisite e lo rende migliore con la nuova idea di paideia che muove verso lo studio diretto dei testi antichi. Una volta cresciuto, e fattosi valere in battaglia, proprio le basi culturali introiettate gli permetteranno di gettare le fondamenta per una convivenza pacifica nel regno e di creare una nuova accademia, l’abbazia di Thélème, simile a Utopia, la città ideale di Thomas More.

Divenuto padre, Gargantua decide che il figlio dovrà fare il proprio percorso di studi nelle più importanti facoltà universitarie. Mentre il figlio si trova a Parigi, Gargantua gli invia una lettera, nella quale troviamo una esplicita lode dello studio, della cultura, e delle enormi possibilità che la contemporaneità offriva loro.


Il mondo, oggidì, è pieno di gente colta, di precettori dottissimi, di grandissime biblioteche, e io penso che nemmeno ai tempi di Platone, di Cicerone o di Papiniano vi fossero tante opportunità di studio quante se ne trovano oggi e che d’ora in avanti non si darà più il caso di dover incontrare per strada o in conversazione persona che non siasi dirozzata nell’officina di Minerva. Io vedo i briganti, i carnefici, gli avventurieri, gli staffieri di oggi più dotti dei dottori e predicatori del mio tempo.

Prosegue incitandolo ad apprendere le lingue: il greco, il latino, l’ebraico, il caldaico e l’arabico; le arti liberali: geometria, aritmetica e musica; l’astronomia, evitando invece perché falsa e vana l’astrologia; il diritto civile; le scienze naturali e la medicina; le sacre scritture.

È evidente che quello che Gargantua ha in mente è un’idea di sapere che possiamo definire enciclopedico.


Sull’idea di enciclopedia


La storia dell’idea di enciclopedia (dal greco: enkýklios paideía, istruzione circolare, cioè completa perché diretta all’insieme dello scibile) affonda le radici molto indietro nel tempo. L’intera filosofia aristotelica è, a ben vedere, un tentativo enciclopedico di sistemazione del sapere, anche se saranno autori dell’epoca ellenistica a cercare di riorganizzare il sapere aristotelico sotto una categoria enciclopedica. Nel corso del tempo, ora più viva ora meno, l’idea ha continuato a esistere e a stimolare intellettuali d’ogni secolo; soprattutto filosofi, che hanno implicita la presunzione che la propria disciplina sia, come dal suo cominciamento è, la scienza delle scienze. Ma non solo.


L’Historia naturalis di Plinio il vecchio ne è l’esempio latino più fulgido, ed è ad opera di un naturalista; nel Medioevo la Commedia di Dante è, in terzine di endecasillabi a rima incatenata, una vera enciclopedia del sapere coevo in cui l’insegnamento aristotelico è rinnovato alla luce dello spirito cristiano; l’opera maestosa di Dante è la ri-creazione geniale in poesia della stessa volontà enciclopedica che la Scolastica (San Tommaso su tutti) esercita in prosa e attraverso le rigide argomentazioni filosofiche.

L’umanesimo (Giorgio Valla), il Rinascimento (Pietro Ramo, Tommaso Garzoni), il Barocco (Athanasius Kircher) perpetuano questo desiderio di completezza e sistemazione, semmai esasperandolo nel tentativo di contrastare la tendenza opposta, anti-classicistica, anti-razionalistica che punta alle debolezze delle possibilità umane, alla impossibilità del sapere (la dotta ignoranza di Cusano, la pazzia di Erasmo), alla similitudine tra mondo e teatro dove ciascuno è piuttosto una maschera, un attore a cui è stato affidato un ruolo (il concetto di theatrum mundi).

L’eredità di queste pratiche è raccolta nell’Illuminismo francese, attraverso il filtro della riflessione inglese, dove Francis Bacon dà alle stampe (1605, nuova edizione ampliata 1623) Sulla dignità e il progresso del sapere umano e divino, opera nella quale prospetta la natura enciclopedica del sapere umano, volto al miglioramento delle condizioni di vita e che si distingue in Storia (che ha per facoltà la memoria), poesia (fantasia) e scienza (ragione). La sua influenza, come accennato, sarà grande in Francia dove Diderot e D’Alembert progettano e realizzano un’opera maestosa (35 volumi), prototipo delle enciclopedie moderne, nonché manifesto programmatico del pensiero illuminista.

Ottocento e Novecento furono due secoli di grande diffusione per le enciclpedie; alle opere mastodontiche si affiancarono, soprattutto a partire da fine Ottocento, quelle popolari, pensate per un pubblico più ampio, sposando l’idea di una diffusione democratica del sapere. Il Novecento è l’anno delle grandi enciclopedie, come la Britannica la World Book Encyclopedia o la Treccani (diretta da Giovanni Gentile, conclusa nel 1937), che rimarranno in auge fino a quando la rivoluzione informatica e, poi, quella del web, non stravolgeranno le cose.


Il libro

Da questo punto storico parte Gino Roncaglia per proseguire il discorso iniziato con il libro precedente, L’età della frammentazione (Laterza 2018), declinando la ricerca sui “principali modelli per la creazione di contenuti digitali complessi” e sulle “loro conseguenze rispetto alla costruzione – e alla natura stessa – dell’edificio del sapere”.

Il titolo del libro riflette appunto i due modelli di organizzazione complessa del sapere analizzati, che sono quello architettonico (ed è appunto l’enciclopedia la sua massima rappresentazione) e quello oracolare (che si incarna invece nelle intelligenze artificiali generative che cercano di replicare il modello delle reti neuronali).


Il volume è strutturato in quattro parti. Nella prima Roncaglia affronta il modello architettonico, raccontando la storia (nascita ed evoluzione) dell’enciclopedismo digitale, quello che affianca, per breve, e poi soppianta la versione cartacea; per far questo, si rivolge a un autore che ha saputo anticipare, sul finire degli anni Trenta del secolo scorso, in qualche modo la configurazione che avrebbe preso l’enciclopedia digitale con Wikipedia e il cervello mondiale con l’intelligenza artificiale: parliamo di H. G. Wells e della sua opera World Brain.

Questo riferimento permette a Roncaglia di fare un’osservazione fondamentale, che rimarrà sempre presente come monito lungo tutto il libro: ciò di cui si riflette, l’enciclopedismo, la biblioteca digitale, l’intelligenza artificiale, non sono temi di natura culturale soltanto, o sociale, ma hanno rilevanza politica e come tali devono essere affrontati anche dai governi. È molto interessante e documentato l’itinerario lungo il quale Roncaglia ci guida, dal pioniere Ducrocq ideatore e autore del primo strumento elettronico di reference, l’informateur électronique, passando per l’OCLC (progetto della biblioteca del college nell’Ohio che trasformava il televisore, collegato al telefono, in un servizio di banca domestica, in un catalogo della biblioteca, in una enciclopedia), quindi per la prima indicizzazione informatica ad opera di John Rothman, che lavorava al New York Times, fino ad arrivare alla diffusione delle enciclopedie su CD-ROM, che, soprattutto nella versione fornita da ENCARTA, hanno messo in crisi quelle cartacee ben prima di Wikipedia. Che però segnerà, dal 2001, la vera rivoluzione della cattedrale del sapere nel web 2.0.

La prima parte si chiude con un capitolo proiettato in avanti, a descrivere il sogno di un web semantico dove le enciclopedie sono pensate come basi di dati strutturati in modo tale da essere consultabili non tanto da esseri umani, quanto da agenti software. Una sfida intrigante, necessaria e apertissima che dovrà soprattutto risolvere la questione della differenza tra informazioni e conoscenze, e quella della possibilità di trasformare ciò che già c’è in termini formali atti a essere interrogati da un software.


La seconda parte è, come detto, dedicata all’intelligenza artificiale (generativa) e procede sotto la metafora dell’oracolo, che vuole appunto da un lato escludere che in gioco ci sia soltanto una ripetizione dei dati inseriti (e che cioè l’AI sia niente più che un pappagallo stocastico), e dall’altro calcare sulla natura generativa dello strumento, che sulla base dei dati di cui dispone, fornisce degli output nuovi.

Roncaglia cerca di proporre al lettore i temi via via affrontati con un linguaggio accessibile, pur nel tecnicismo inevitabile di alcuni termini e snodi, soprattutto per fornire un po’ di materiale affidabile riguardo a un tema su cui spesso e volentieri si leggono e si sentono affermazioni inesatte, imprecise e argomentazioni poco o nulla fondate.

Inoltre, ci sono capitoli che parlano senza infingimenti dei problemi o pericoli ancora irrisolti, come le cosiddette allucinazioni (la creazione di contenuti improbabili o errati) o il carattere pregiudiziale di molti contenuti (i cosiddetti bias).

Questa parte si conclude con un capitolo che raccoglie nove tesi che in parte sintetizzano le conclusioni raggiunte e in parte focalizzano l’attenzione sul rapporto tra intelligenza artificiale e mondo editoriale classico (e cioè: i libri).


Nella terza parte, affascinante, il focus si sposta sull’analisi di un aspetto meno teorico e che ci riguarda tutti da vicino: qual è il rapporto contemporaneo tra memoria e identità ora che sempre più la memoria di ciò che siamo (diciamo, facciamo, viviamo, esperiamo, sappiamo) è affidata a estensioni esterne di noi (supporti di stoccaggio di elementi digitali).

Nel film Minority report, liberamente ispirato al racconto di Philip Dick, John Anderton, capitano dell’unità Precrimine, torna (sulle note del secondo movimento della Patetica di Čajkovskij) a fine giornata nella sua bella e completamente automatizzata casa; a dominare è una grande confusione e capiamo he l’abitazione rappresenta l’abitante e la sua dolorosa incapacità di elaborare il lutto per la perdita violenta del figlio Sean e per la conseguente separazione dalla moglie Lara.

John va alla scrivania, sceglie da un raccoglitore una fina lente di vetro sulla cui sommità sono incise delle parole: Sean at the beach; la inserisce in un apposito lettore, ordina al sistema di proiettare il filmato sul muro e il lavoro incrociato di più proiettori dà alla scena una sorta di ologrammatica tridimensionalità. La parte più forte emotivamente (patetica, in certo modo), è nel fatto che John anticipa le battute che aveva detto allora di fronte al figlio, segno di una visione molteplice del file che ha rinforzato la memoria a tal punto.

Di questo anche parla Roncaglia, e cioè delle possibilità insite nella disponibilità su supporti esterni dei nostri ricordi, e del potenziale utilizzo nei casi di malattie che incidono proprio sulla memoria, come il morbo di Alzheimer. L’identità a cui siamo abituati è una costruzione fondata prevalentemente sui nostri ricordi e sui quelli di secondo grado, cioè sui racconti che altri hanno fatto di cose che ci sono accadute e che noi abbiamo introiettato come nostri. Nel presente, e sempre più nel futuro, questa costruzione va facendosi più complessa e, avvisa l’autore, non è lontano il tempo in cui i dispositivi potranno registrare e archiviare tutto ciò che facciamo, diciamo, vediamo e sentiamo, secondo dopo secondo, una sorta di diario in scala 1:1. Qualcosa che ci avvicinerebbe molto a Funes el memorioso, di J. Borges.


Minority Report, e il suo autore geniale Dick, ci hanno portato nella letteratura e nella science fiction. Proprio la quarta e ultima parte, quella meno teorica e più personale, affronta tre opere di narrativa fantascientifica nelle quali, in misura diversa ma ugualmente forte, compaiono elementi di anticipazione del presente (e del futuro nostro) e che forniscono una curiosa indagine del rapporto tra narrativa di fiction e immaginazione del reale.

Un aspetto davvero interessante del libro è la sua penetrazione (o estensione) oltre i confini delle pagine, grazie a numerosi QR code che permettono di visitare siti in cui sono presenti documenti di approfondimento, filmati, spezzoni di film e altro materiale utile per approfondire. Non soltanto dunque le note a fine libro, che puntualizzano e dettagliano il discorso, ma anche dei contenuti aggiuntivi che aumentano, diciamo così, la realtà del libro.


Per concludere, L’architetto e l’oracolo è un ottimo testo che analizza i limiti e le prospettive future dell’intelligenza artificiale, ma che inoltre da un lato contestualizza le riflessioni nel nostro presente, dove Wikipedia costituisce l’ultimo momento del consolidamento millenario del nostro sapere in architetture stabili e organizzate, e dall’altro mostra come in rapporto alle intelligenze artificiali anche la nostra può trovare forme alternative di espressione e azione sul mondo. Un mondo che è stato solo intravisto dai grandi narratori di fantascienza, perché a qualunque pensiero, umano o artificiale che sia, sembra preclusa ogni chiara e definita preveggenza.


Come dice Doc Brown a Marty e a Jennifer (in Ritorno al futuro III, dovevo davvero precisarlo?):


“Il vostro futuro non è scritto, il futuro di nessuno è scritto, il futuro è come ve lo creerete voi perciò createvelo buono!”

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