Una breve nota di lettura su Il mare colore del vino, la raccolta di racconti di Leonardo Sciascia, uscita per la prima volta per Einaudi nel 1973.
Il mare colore del vino, uscito per la prima volta per Einaudi nella collana I coralli nel 1973 e poi riproposto, come l'intera opera dello scrittore nato a Racalmuto nel 1921, da Adelphi, è una raccolta di racconti, tredici, scritti da Sciascia tra il 1959 e il 1972 e già precedentemente pubblicati altrove (riviste, quotidiani, antologie).
La si può considerare, e così da più parti si fa sulla scorta delle parole dello stesso autore, poste alla fine in una nota (Sciascia ha abituato il lettore a simili postille, brevi e lucidissime, nonché ricche di dettagli di scrittura, di riflessione, di storia, di biografia), come un sommario di forme e temi della sua narrativa, per come era andata e stava costruendosi.
I racconti, sempre a seguire l'indicazione autoriale, seguono un ordine cronologico di ideazione e scrittura e davvero esemplificano da un lato la varietà di temi che lo scrittore siciliano ha nel tempo affrontato, dall'altro le soluzioni originali di scrittura, stile, registro, forma, che via via quei temi sono andate rappresentando e indagando.
C'è questo, invero, come comune denominatore di ogni narrazione sciasciana, anche laddove la parte di finzione cede quasi del tutto il passo alla verità storica, e cioè l'idea che il reale, il mondo che ci sta innanzi e che nel tempo si dispiega, stia in rapporto agonistico con una mai doma attività intellettuale investigativa, la quale, pur ignorando fino a dove possa spingersi e quali siano le effettive o plausibili possibilità di successo, non mai retrocede. Un'istanza razionale che riguarda l'autore prima di tutti e i suoi personaggi in secondo luogo, alcuni dei quali, come ben sa chi ha debita frequentazione con le opere in questione, soccombono irretiti (I pugnalatori), convertiti (Il giorno della civetta) o finanche definitivamente sconfitti (A ciascuno il suo, Il contesto).
Eppure ancora questa ultima intenzione di conoscenza rimane, è rimasta, come configurandosi nelle forme di un destino ineluttabile. In fondo, che senso avrebbe questo negativo, questo male che ovunque accade e talvolta impera, se non dovesse scontrarsi con una ragione ordinatrice, opporsi a una volontà investigativa e lucifera? Una ragione per nulla monolitica e uguale sempre a se stessa; a volte voltairiana, refrattaria all'ottimismo ingenuo e ironica; talaltra shakesperiana, inchiavardata al personaggio del fool; o ancora, una ragione media, professorale e professionale, di chi avanza a ritmo lento, molto riflettendo e tutto considerando, senza ambasce, consapevole che nel grande teatro delle umane gesti, sotto al sole le cose non mutano che di pochi accidenti, e secondari.
Ne Il mare colore del vino c'è un po' di tutto questo e molto altro; soprattutto è presente la sempre alta considerazione che Sciascia nutriva per la nostra lingua e per il suo mobile drappeggio (ci si ricorderà, al proposito, di cosa salmodiava, sull'italiano, il professore Carmelo Franzò, protagonista di Una storia semplice). Come può la ragione operare se non è consapevole del suo principale strumento, la lingua, e capace di usarla nei modi e nei tempi che essa non soltanto permette, ma richiede?
Il termine «cretinoso», per altro, vale come alleggerimento di quello di cretino: «oltre il cretino – spiega il professore, – abbiamo il “cretinoso”, che partecipa del primo e nello stesso tempo dell’uomo sano e normale». E viene da rimpiangere che questa parola non sia uscita dalle perizie del criminologo per entrare nell’uso comune: oggi ce ne sarebbe tanto bisogno, che si attaglierebbe a quelli che partecipano della cretineria mostrando di far uso degli strumenti dell’intelligenza. [da Processo per violenza]
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