Recensione di Viviamo in acqua, di Jess Walter, Racconti edizioni 2017. 12 storie e un sunto su cosa significhi vivere a Spokane, Washington.
"Viviamo in acqua" è la prima, e finora unica, raccolta di racconti pubblicata da Jess Walter (l’edizione originale, We live in water, è del 2013). Il libro, finito nella prima selezione del Frank O’Connor international short story award del 2013, segue una serie di romanzi piuttosto vari per stile e ispirazione, e di successo sia tra il pubblico sia tra i critici. Il libro è uscito nel 2017 per Racconti edizioni (www.raccontiedizioni.it) con la bella traduzione di Maurizio Bartocci abile nel rendere la complessità delle short stories di Walter, come mi conferma Stefano Friani (uno degli editori dietro al progetto Racconti), che ha avuto la disponibilità di chiacchierare con me su questa raccolta che rimane a suo giudizio una delle punte di un catalogo che si sta formando sì gradualmente ma ad un ritmo mano a mano più rapido.
In queste storie brevi a colpire è la delicatezza con cui Jess Walter tratta la vasta collezione di miserie e fragilità che caratterizzano l’esistenza dei suoi personaggi, tutti abitanti nella ristretta circoscrizione di Spokane, Washington, dove Walter vive dall’infanzia. Una delicatezza non priva di ironia, che anzi soffia costantemente tra le strade della piccola cittadina e pare sospingere i protagonisti in situazioni a volte improbabili, altre volte simbolicamente banali.
Il centro nevralgico attorno al quale Walter ha costruito questi racconti è la dialettica tra il vero e il finto. Più che indagare la questione dal punto di vista gnoseologico, i testi mettono a tema il rapporto narrativo tra un fatto e la storia che di esso se ne può dare, chiarendo che la quota di realtà di un racconto e la sua carica d’attrazione (emotiva almeno) possono essere perfino superiori alla pura esperienza delle cose, come leggiamo in I re della carriola:
Questa cosa mi fa ridere. Sì. Poi torniamo e troviamo quel cazzo di cane che scorrazza strusciando il culo per terra. E anche se ero presente a tutto quanto rido ai racconti di questa cazzo di giornata passata insieme. Camminiamo e Mitch ricomincia a raccontare tutto quanto da capo. Mi sa che non finirà più di raccontarlo. Eppure mentre quelle cose le facevamo non ho riso manco per il cazzo. Adesso invece sembra tutto così divertente che non riesco a sopportarlo.
Ciò che qui emerge come evento bruto, cioè la maggiore efficacia emotiva del racconto rispetto all’esperienza diretta, era stato in certo modo preparato e annunciato in un altro racconto, Vergine, nel quale il protagonista e io narrante esordisce apostrofando il lettore e sottolineando come ad ognuno interessi sempre e soltanto una cosa, che non è la verità né il mero risvolto emotivo delle esperienze, né una qualche forma di comprensione dell’altro. Ciò che sempre importa al lettore, al curioso, all’investigatore (della mente o dei fatti) è la catena causale, è rintracciare il perché sia accaduto qualcosa per poter poi quietamente consolidare una forma di determinismo senza la quale il mondo apparirebbe dominato dal caos. Una sorta di tentativo di pacificazione che allude assieme anche al senso ultimo che sta dietro il bisogno dell’uomo di raccontare storie: circoscrivere una porzione del caos esterno entro i confini di un inizio e di una fine, per quanto debole questa costruzione possa apparire.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta il rapporto tra determinismo e libertà è chiarito ricorrendo alla immagine del pesce nella boccia, con l’obiettivo di individuare nell’uomo quel medium tra natura e cultura in cui accadono l’azione e la sua narrazione:
Guardò il pesce arrivare fino in fondo al suo mondo azzurro, invisibile e impassibile, voltarsi, fare il giro, voltarsi di nuovo, quando sentì un’altra parete e un’altra ancora e così via. Non sembrava nemmeno acqua, là dentro, tanto era azzurra e trasparente. E quel cavolo di pesce continuava a nuotare in tondo, come se credesse che, una volta o l’altra, il vetro non ci sarebbe stato e lui avrebbe potuto prendere il largo, all’aperto. Oren mise la mano sulla spalla del bambino. Michael si voltò. «Noi non siamo come i pesci, Michael» disse Oren. «Tu puoi fare tutto quello che vuoi».
Walter non si limita a ripercorrere un tragitto scontato, ma interpreta ulteriormente e a suo modo questa necessità. L’ultimo brano della raccolta non è un racconto, ma una lista di cinquanta punti intitolata Sunto statistico della mia città d’origine: Spokane, Washington. L’apparente oggettività è sconfessata dal contenuto dell’elenco, che ripropone, accanto a numeri e dati che chiunque potrebbe trovare con una semplice ricerca, aneddoti e ricordi dell’autore che contengono frammenti di ciò che abbiamo già letto nei racconti.
I dati, le date, gli elenchi, si prestano ad innumerevoli interpretazioni. Sono indizi, tracce, resti del passaggio umano che si può sempre riconfigurare per dare origine a nuove forme di racconto, trasfigurare in ulteriori mitologie che non imbrigliano ma inverano costantemente ciò di cui abbiamo esperienza, fin anche quasi all’assurdo prospettato nel racconto intitolato New frontier:
Ho una teoria: che questa, Las Vegas, sarà l’unica città che gli archeologi del futuro ritroveranno. Il clima secco la conserverà e le squadre di scienziati dell’anno 5000 toglieranno e scrosteranno con cura la sabbia, sotto la quale troveranno piramidi, castelli e riproduzioni della Tour Eiffel e dello skyline di New York, pertiche per la lap dance e carte con le donne nude; e questi archeologi del futuro ricreeranno la nostra intera cultura fondata unicamente su questo schifosissimo posto, cinico e superficiale.
Niente di più finto, niente di più vero.
POST SCRIPTUM
Se ti è piaciuto Viviamo in acqua, potresti leggere:
Philip Ó Ceallaigh, Appunti da un bordello turco, Racconti Edizioni 2016
Se vuoi leggere qualcos’altro di Jess Walter, ti consiglio:
Jess Walter, La vita finanziaria dei poeti, Guanda 2011
Comments