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Una fragile distanza. Scena muta, di Nicoletta Bidoia

Scena muta, la nuova raccolta poetica di Nicoletta Bidoia, pubblicata da Ronzani Editore, è una articolata riflessione sulle condizioni necessarie affinché la parola poetica torni ad occupare il luogo d'eccellenza che le spetta, iniziando a distaccarsi da operazioni di contabilità (sentimentale innanzitutto) e da un rapporto oscena col passato.




Tu non hai conosciuto la gioia, nella tua vita,

ma aspetta, zio Vanja, aspetta…

Riposeremo… riposeremo… Riposeremo!

Anton P. Čechov, Zio Vanja


Communicatio idiomatum


È già dal titolo che la parola detta, data, viene tradita; non già come in una falsa testimonianza, non come quando non si rispetta il patto, quanto piuttosto come quando si oltrepassano le soglie che separano la norma da un paradosso. Non esiste parola poetica che non venga udita. Non intesa, non compresa, ma certo udita. Il silenzio a cui Scena muta rinvia deve allora essere investigato, perché ciò che importa è lo spettro connotativo, più che la forma denotativa.

La scena muta è di quanti, interrogati, tacciono, la cui lingua deven tremando muta al cospetto di qualcosa di incomprensibile: una domanda, uno sguardo, un segno.


Tra i vari segni di fronte ai quali l’essere umano si arresta o arretra, da sempre, è l’evento naturale assoluto, sciolto dalla presto compresa alternanza stagionale, dalla vagamente intesa causalità fisica. L’evento enorme (ex-norma), smisurato, indeterminato. Come il primo fuoco, come il terremoto, come una glaciazione. Sul fragile equilibrio di norme e abitudini che viviamo, l’evento accade improvviso e sconvolgente.


Come la parola che rompe il silenzio.



La prima sezione della raccolta, La morsa, allude in parte a questo. Di fronte all’improvvisa ondata di freddo cosa resta da fare, cosa si può dire? È evidente che per indagare e capire l’evento non basta la parola normale, quotidiana, non basta mandare a memoria gli alfabeti, prepararli a concentrarsi / su pensieri di tundra / e la durezza che c’è. Non basta per lo scollamento di cui prima si diceva tra la vita conosciuta e quella segnata dall’evento; uscire come giornalisti inviati a fare cronaca del mondo non porta alcun risultato, se non balbettii, barbarismi, perché la parola, come fede, / stenta.


Lo sguardo del poeta, agghiacciato nel paradosso della scena muta, non può non accorgersi che ogni evento trascende la norma e, così, si mostra per quello che è: messaggio. La poiesis inizia sempre da un’epifania:


Sta succedendo qualcosa,

ci siamo detti, tra la terra

che ci addenta in banchisa

e il cielo che si addensa

e impallidisce ogni precetto.


Nella distesa vasta di scongiuri

Il grido di chi prima taceva

Si propaga rapido fino in Boemia.


Un grido, un’inarticolata invocazione che si propaga veloce è l’esito di questa uscita tentata per contabilizzare le forme del mondo sottoposte alla morsa: l’evento inatteso, il segno. Andando un poco oltre si può dire che se la parola viene condotta a questa mera funzione di testimonianza del reale (altri direbbe rappresentazione), il luogo della poesia si svuota: ecco l’altro significato possibile di scena muta, quello teatrale, quando in scena non c’è alcun attore e allo spettatore si offrono scenografie immobili di strade vuote e finestre aperte su vuoti abissali.


Questa vacanza del ruolo ci porta alla seconda sezione, Il caro enigma, che introduce al cuore del messaggio della raccolta. La sezione è dedicata ai morti e alcune poesie contengono, in corsivo, parole di una persona che non c’è più, fratello di un’amica della poetessa. Il dato autobiografico è occasione per una riflessione generale; sono queste parole, innestate o incistate nella scansione del discorso, non parole dell’altrove, ma parole di un tempo che non è più, restituite al dirsi, altro paradosso per cui un morto torna a parlare, a far sentire la sua voce. L’enigma è come destreggiarsi in questo colloquio impossibile e al contempo trovare una lingua che resista e salvi tra le smagliature inemendabili della memoria – che scivola e sbaglia nel ricostruire un viso, nel richiamare un’occasione – e lo scandalo del presente, il massacro / del tutto a ogni costo, luogo d’esilio in cui


Tutto il resto rimane un nascondiglio

Dove il nome si cela alla radice

E tutto, tutto si chiude intatto al mondo

E non si vede più


Una soluzione, che era già stata accennata nella prima sezione (si pattina sulla piazza del mare) e viene qui ripresa, potrebbe essere nell’invenzione.


Non è no, non è sì


Se la prima sezione serviva a staccarsi dal fatto (storico, umano), dal dato oggettivo (l’inverno assurdo del 1709), dalla statistica, e quindi dal linguaggio-strumento, il caro enigma compie la stessa operazione nel campo ristretto della memoria dei nostri morti, nella dimensione troppo carica di passato che ciascuno di noi ora può sperimentare, dove i ricordi non sono più le creazioni della libera attività della memoria, ma sono anch’essi dati, cartelle di uno schedario, momenti cristallizzati e sempre pronti all’uso, innumerevoli lacerti del già stato che pesano e occupano lo spazio presente, che si trova a dover quasi scappare da un passato che non vuole passare.


Siete tutti così intelligenti, così attivi.

Qui è scena muta, è scena

da poco. Si depongono

le attitudini come chi preferisce

mancare lo scopo e ama solo

i tempi morti.


Per quanto siano cari, i morti devono tacere: non ti opporre / se si smaglia la memoria: / qualcosa bisogna pur perdere / in qualcosa bisognerà pure svanire.

La strada indicata da Nicoletta Bidoia sembra quella di una riarticolazione delle estasi temporali attraverso il recupero dell’immaginazione, della forza creativa, del gioco. Questo significa lasciar entrare, classicamente, la mania e seguirla nella pedagogia dell’evocazione, del suggerimento; significa farsi interpreti dell’oracolo che da sempre è demone tra quel cielo in cui tutto è già e questa terra che nel tempo di quello si fa lento dipanarsi, realizzazione, inveramento.


La sera ci stacchiamo dalle frasi,

dai lampioni e mentre andiamo,

risalendo piano la corrente,

confrontiamo i sassi coi pensieri,

torniamo ai baci corsari, inventiamo

a uno a uno ogni presente che si avvera.


È vano fuggire dagli Dei, come diceva Hillman. Arriva sempre il tempo del segno che accenna, che allude all’infinito orizzonte ed eterno verso il quale si dipana il mondo degli umani e nel quale è impossibile che esista qualcuno a cui non si abbia a nascondere qualcosa:


Accade svelto, senza volere,

il segnale, quando si aprono i balconi

o si spostano i tappeti per pulire

ed è un malore, una febbre alta

e breve che intravede come si metterà

stavolta il giorno, se cederà l’argine

o ancora tiene e se tra un mese

la piena sarà pronta a tornare.

Ma nient’altro è dato, né difesa,

se non custodire l’intuito

e aspettare che sfebbri.


La parola del poeta si dimette da qualsiasi necessità burocratica e performativa (Hanno ragione, niente, non facciamo niente), rimettendosi ai versi stereofonici, alla felicità dei cani, ai giochi dei bambini; soprattutto, recuperando l’originaria pratica del poeta, il prendersi cura (dell’intuito e della parola che serve a darne espressione), ecco finalmente la via della pacificazione col passato:


La scio la finestra e il foglio cade

vicino al letto. Viene poi il momento

di spogliarsi, di disperdere

le trame che eravamo

e in questa smania di buio

– a una distanza di vent’anni –

ci incontriamo.


Le anime sporche dei gigli


Ho dato ampio spazio alle prima due sezioni perché mi sembrano, nell’economia generale del libro, i luoghi in cui vengono stabilite le condizioni necessarie per poter uscire, senza negarla, dalla scena muta, dal paradosso che abbiamo indicato all’inizio di un poeta che tace. Solo ora il linguaggio poetico si può prendere cura del libero gioco della memoria, che interessa Ora per allora, la terza sezione in prosa, che, come dice Alberto Cellotto nella sua introduzione, “restituisce una memoria perfettamente collocata in un tempo e in uno spazio”. La breve esperienza adolescenziale in una scuola di balletto classico vale, grande sineddoche nella narrazione di sé, come esempio della libertà creatrice della memoria, svincolata dall’obbligo sacralizzante verso il passato. La sezione è un piccolo romanzo di formazione che Nicoletta Bidoia racconta come un itinerario della mente e del corpo verso il (ri)conoscimento dell’altro e di sé, una presa lenta di contatto che passa per la percezione degli alfabeti altrui, per la perlustrazione delle geografie del corpo, per la disciplina applicata alla condotta e all’arte.


È di questo che parla la maestra Ciortea quando invita la ragazzine a non avere timore di parlare col diavolo quando ballano. La danza è puro disbrigo dell’energia vitale, passione viscerale, follia priva di anticipazione apollinea, tutto presente: si entra così, a turno, nel regno delle ombre. Poi un viso si volta verso casa, guarda la consistenza quieta dei nidi; Orfeo, sì, ma senza Euridice, perché le trame che eravamo sono state fatte cadere, come detto sopra.

Ora per allora è divisa in tre capitoli, in cui a colpire è anche l’alternanza dei punti di vista scelti dalla Bidoia per articolare la narrazione. Si va uno diffuso plurale o impersonale, a uno neutro di terza persona, a quello finale, nel quale il noi era due.

Come detto sopra, in questa sezione che è parte per il tutto, ci viene raccontato un itinerario formativo che muove dal generale al particolare, dalle voci alla parola e che si chiude con una forte immagine di commiato: Pregammo Brodskij, Diaghilev e Stravinsky, li implorammo di esistere là dove già erano.



In foto il ballerino Vaslav Nijinsky

La quarta sezione, Finiremo per trovarci, conclude e corona il movimento precedente assumendo la voce del grande ballerino Nijinsky, e con ciò scendendo nella sua follia, nella sua arte, e sintetizzando tutto quanto le tre sezioni precedenti hanno messo in gioco. L’artista Nijinsky, come il poeta che interpreta i messaggi del divino, è lo sguardo osceno che impaura, è il folle che viene allontanato, negato: non do loro niente di quello che cercano e alla fine ringhiano spaventati. Volevano solo divertirsi. Fuggono la verità come la peste, una verità incomprensibile perché portata da chi, in comunicazione privilegiata con l’altro, parla una lingua diversa: sono uno straniero e vengo da altrove. E ancora:


[…] Lavoro anche stavolta

Da taciturno esploro una lingua nuova,

invento la preistoria di tutti.

È barbara e pagana la nuova santità.


Questa esplorazione e questa invenzione sono le attività del poeta, lo ripetiamo. A questo deve giungere il custode dell'intuito, spaventando se occorre, impetrando i volti se è il caso, ma senza cedere un solo istante non già alla follia, che è inevitabile, ma alla grottesca normalità e al diffuso brusio che offende.


Veglio il mondo e indovino.

Sulla soglia aspetto

e col palmo della mano a conchiglia

raccolgo le voci all’orecchio,

le attendo.

Sono il solo in ascolto.


Solo a questo ascolto la scena muta parla.


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