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Una favolosa estate di morte di Piera Carlomagno

Il romanzo di Piera Carlomagno Una favolosa estate di morte, edito da Rizzoli, ha due personaggi principali: Matera e il territorio circostante, da un lato; e la rappresentazione, intesa come finzione teatrale, dall’altro. Più ancora della trama, più dei personaggi e certo più dello stile, sono questi i due elementi che vengono intrecciati fin da subito e che tali rimangono lungo tutta la narrazione fino all’apoteosi della scena finale.

L’azione drammatica prende avvio con il ritrovamento di due cadaveri da parte di Lara Venosa, una regista teatrale che sta aspettando il resto della compagnia e passeggia, riflettendo sulle sue scelte registiche, in mezzo a quell’ambientazione naturale straordinaria creata dai calanchi di Montalbano Jonico. Lo spettacolo che ha ideato è una restituzione drammatica del famoso quadro di Carlo Levi, Lucania ’61.

Carlo Levi, Lucania 61, particolare

I due, ritrovati dentro un inghiottitoio, avvinghiati, non sono persone di poco conto, anzi: si tratta di un architetto molto noto, sposato, mente di numerose operazioni edilizie sempre in bilico tra spregiudicatezza e illegalità; e una giovane donna, discendente di una importante famiglia di notai. Erano amanti, poco preoccupati di mantenere segreta la relazione. Loris Ferrara, il magistrato incaricato delle indagini, si avvale per il caso anche della collaborazione della patologa Viola Guarino, la protagonista principale del romanzo, capace di dare una precisa direzione alle attività investigative, sfruttando ad un tempo le sue capacità logico-deduttive e quelle più legate alla intuizione e alla immaginazione fantastica.

Non è, come dicevo all’inizio, il fatto criminoso in sé ad interessare l’autrice. Il mistero da risolvere è presente, funge da motore per il racconto, ma è spesso messo sullo sfondo, parcheggiato quasi, mentre l’interesse dei protagonisti si dirige ad altro: le caratteristiche del territorio di quella parte della Basilicata così oscura e ancora legata ad un passato di estrema povertà, arretratezza e solitudine, ma parimenti mossa da un ribollire di recentissima attività, complice anche la nomina a capitale della cultura; la presenza di una diffusa e ancestrale ritualità, a volte in procinto di sconfinare in quella che popolarmente si chiama magia o stregoneria, e che ha a che vedere con i riti di passaggio, la morte, la lamentazione, la preveggenza, e quanto di simile è noto al pubblico anche per gli studi di Ernesto De Martino dedicati alla Lucania; gli intrecci inestricabili tra i poteri politico ed economico, con il secondo abituato a pensarsi legittimato dal primo a fare tutto per perpetuarsi e ingigantirsi.

Se questi sono i temi veri del romanzo, l’azione criminosa serve a mostrare come nel piccolo, nell’azione determinata, agisca una forza, una violenza che in qualche misura va al di là della necessità singola, e piuttosto sfoghi un’energia che è molto più profonda e diffusa; un’energia, sembra indicare l’autrice, che appartiene al popolo tutto della regione e che viene tenuta a bada anche grazie a certe credenze e ai riti che da quelle discendono, come ad esempio la rappresentazione del dolore ad opera di donne che ne hanno fatto una professione, oppure a quelle poderose messe in scena che coinvolgono l’intero paese, come accade nella processione della madonna bruna, che ci viene descritta dall’autrice verso la fine del romanzo e che si intreccia con i fatti narrati.

L’intreccio di questi aspetti culturali con la vicenda pura e semplice è il punto di forza del romanzo, che tuttavia non riesce ad andare in profondità quanto l’intuizione avrebbe meritato; l’ambiente, che come ho detto gioca una parte fondamentale nell’architettura del romanzo, appare spesso come un fondale statico che la protagonista attraversa ripetutamente a cavallo della sua Ducati, senza che la relazione tra le persone e i luoghi sprigioni il forte potenziale promesso; vale lo stesso per la caratterizzazione dei personaggi, che ricalcano tipi già visti e non riescono a incidere, tratteggiati per sommi capi, se non per cliché.

Un poliziesco mediterraneo, scuro, alcolico, che avrebbe meritato maggiore decantazione.

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