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Un’altra ultima Thule. Se l’acqua ride, di Paolo Malaguti

Aggiornamento: 7 ott 2021

Recensione all'ultimo romanzo di Paolo Malaguti, finalista al Premio Campiello e vincitore del Premio Latisana Nord-Est. Un romanzo in cui l'autore approfondisce il suo lavoro di indagine e mimesis tra codici linguistici e in cui dipinge un affresco su un momento di passaggio tra mondo contadino e mondo operaio, la vera grande migrazione che ha interessato il Veneto degli anni Sessanta.



Questa recensione parte da un ricordo. Opportunamente, credo, perché l’intreccio tra finzione e dati biografici, tra immaginazione e memoria, è un carattere distintivo della narrativa di Paolo Malaguti, che ha sempre ingaggiato con la scrittura una battaglia che è soprattutto di ricerca e di illuminazione, di indagine e di rivelazione, di scavo e di esposizione.


Dopo la diretta tv della premiazione del Premio Campiello, che appunto vedeva Se l’acqua ride nella cinquina finalista, RAI5 ha trasmesso uno spettacolo teatrale di Gene Gnocchi; si tratta di un monologo del 2001, intitolato La responsabilità civile dei bidelli nel periodo estivo (se volete, potete vederlo qui). È un classico testo di Gnocchi, divertente, ironico, stralunato, creato su misura per la sua vocalità emiliana e la sua ammiccante espressività. Ad un certo punto il personaggio in scena, che nella finzione si chiama Baltashar ed è un drammaturgo, dice:


Io poi con questi qui dell’Anas ho già un contenzioso aperto, perché secondo questi qui dell’Anas, mio figlio, avrebbe divelto due cartelli stradali cunetta o dosso sulla tangenziale che va da Modena Nord all’Abetone. Perché gli avevano dato una ricerca sui cartelli stradali di pericolo. Ora, io qui lo dico, io non so come mio figlio avrebbe potuto divellere due cartelli stradali cunetta o dosso dal momento che io sono assolutamente sicuro che mio figlio non conosce il vocabolo divellere. Io sono andato a vedere anche i suoi temi delle elementari e delle medie, non c’è traccia del verbo divellere.

Risate. E infatti la battuta fa ridere. E, come molte battute che fanno ridere, fa anche pensare. A me per esempio fa pensare al rapporto tra le cose e le parole che quelle cose dovrebbero significare, richiamare, indicare; la questione del triangolo significante-significato-referente, insomma. Che è una questione complessa e di cui qui non dirò molto più di una citazione che ho trovato in un libro recente. Andrea Marcolongo scrive: «Gli antichi sapevano che la vita è un obbligo morale da assolvere in pienezza e in dignità. Prima di tutto, attraverso le parole per nominarla. Credevano fermamente che ci fosse piena coincidenza tra significante e significato, tra nome e realtà grazie alla facoltà di dirlo, quel reale – e di renderlo tale grazie al potere creativo del linguaggio. Valeva anche il contrario, naturalmente: se una cosa non aveva nome, oppure per vigliaccheria non la si pronunciava, allora di fatto non esisteva»[1].


Similmente vale per il protagonista del racconto di Balthasar e questa immagine di un ragazzo che non può aver agito perché ignorava il termine che definisce quell’azione, che la fa essere, questa sorta di antecedenza del sapere al fare, mi intriga un po’. Mi è venuta in mente la Bibbia, naturalmente. In effetti Adamo riceve la delega divina di dare il nome alle cose. Le cose precedono il nome, che è dunque invenzione del primo poeta della storia. Eppure, poco prima, si dice che in principio era il verbo e che il verbo era presso dio, che dice sia fatta la luce, e la luce fu. Qua la cosa è rovesciata e la parola precede la cosa. Ma noi non siamo dio e non siamo Adamo, che insomma viveva una situazione ben strana e unica.

Siamo uomini, inseriti in un contesto linguistico ben prima del nostro muoverci nel mondo, quando ancora siamo nel ventre materno e da tutto intorno giungono rumori e suoni e voci. Nell’ultimo romanzo di Paolo Malaguti questo rapporto irsuto tra le parole e le cose si dice in molti modi.


Pausa. La storia la riassumo così: siamo nella bassa padovana a metà degli anni 60, in pieno boom economico. Protagonista del romanzo è una famiglia composta da due ragazzini: Ganbeto di quasi 14 anni e Luciano, di quasi undici; dai due genitori e dal nonno paterno. Il nonno, conosciuto come Caronte, fa il barcaro, aiutato dal figlio. Guida un burcio, la Teresina, e trasporta varie materie sulle rotte fluviali del Veneto centro-meridionale, spingendosi anche oltre regione, verso la Romagna. Il romanzo, che è romanzo di formazione, fotografa un anno di vita di questa famiglia e si incentra, alternando presente e recente passato, sul processo di maturazione di Ganbeto, che fa la sua prima esperienza sul burcio come morè (garzone), fa l’ultimo anno di scuola e supera gli esami, passa un’estate sul burcio come mariner, sostituendo il padre nel frattempo entrato in fabbrica, e scopre le forme e le conseguenze dell’amore.



La questione della lingua, dei codici, delle parole e degli oggetti cui esse si riferiscono, attraversa il romanzo nella sua interezza, con varie e più o meno profonde declinazioni. A partire dal momento originario del nome proprio (o del soprannome), che per il nostro protagonista riveste un ruolo essenziale. Non a caso, il battesimo sulla Teresina, il burcio del nonno, è contemporaneo al battesimo con il soprannome che poi lo accompagnerà per lungo tempo: Ganbeto. È il nonno che lo nomina così, facendosi ispirare dal fisico ossuto del ragazzo, ed è il primo e vero in-segnamento della voce del padre (padre del padre, e padrone del burcio). Ma nel romanzo c’è molto altro, e tra i molteplici aspetti tre sono gli aspetti maggiormente simbolici.


Le parole e le cose #1. L’amore


Una delle tappe della prima esperienza di Ganbeto in barca, come morè, è Pellestrina. Lì, il padre per non trovarselo tra i piedi durante una fase delicata di scarico, lo manda a farsi un giro nel paese, a guardarsi intorno, a fare una piccola spesa al casolino. La vista del mare, lui imberbe barcaro di fiume, è qualcosa di grande, già più importante della recentissima vista della laguna. E anche un breve scambio di parole con un paio di pescatori locali lo lascia stranito, per via dell’accento, dei suoni strani di quelle parole che gli sono state rivolte. Ma a cambiare del tutto la sua prospettiva sul mondo è quello che accade all’interno del casolino, un luogo che appare quasi fatato, misterioso, capace di regalare una autentica epifania che si svela una volta che Ganbeto si abitua alla scarsa illuminazione del locale.


Mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità, la pelle sudata si godeva la frescura dell’ambiente riparato dal solleone che per tutto il giorno lo aveva cucinato sul ponte del burcio. Non c’era nessuno, anche se arrivavano dei rumori dal retrobottega. La porta a vetri satinati si aprì con un lieve cigolio: evidentemente per quel giorno gli spettacoli cui era destinato non erano ancora finiti.

È la prima esperienza con le insidie di eros, a turbare Ganbeto, a farlo spettatore estasiato di un nuovo spettacolo: una ragazza mora, della sua età ma più matura delle coetanee a cui era abituato, dalla carnagione scura, dai tratti esotici, dagli occhi magnetici simili a quelli delle squaw viste solo nei fumetti. La confusione in cui precipita Ganbeto è totale, e coinvolge il fisico e l’intelletto, rendendolo quasi comico nell’incapacità di agire seguendo quello che è, pur se ancora indefinito e nebuloso, il suo desiderio. Una sorta di possessione che lo accompagna per tutto il tragitto di ritorno al burcio e che non sfugge al nonno, vero esperto del dire e del fare.


Suo padre non se ne avvide, invece Caronte, che fumava guardando la lagunaormai immersa nei toni turchini della sera matura, si limitò a mormorare al figlio, accennando con la testa alla volta del nipote intento a lavare i piatti: – Bisognerà insegnarci a ‘sto bocia come calumarsi dietro una tosa. Calumare, nella lingua antica dei barcari, significa far scivolare qualcosa, una catena o una corda, fuori coperta. Ma nell’espressione usata da Caronte lo stesso termine indica le manovre di corteggiamento di un uomo nei confronti di una donna.

L’esordio di Ganbeto nell’intramontata competizione d’amore sembra fallire per la mancanza di un’abilità pratica che è anche ignoranza del nome della cosa.


Le parole e le cose #2. L’altro codice


Ci sono due situazioni significative che interessano Ganbeto nel suo ruolo di studente, cioè di rappresentante di quella generazione che, per prima, può studiare più – molto dio più – di quanto era pensabile per i propri genitori. L’una con la madre, l’altra col padre, quasi a voler eguagliare la bilancia famigliare.

Nella prima, dopo essere stato sgridato dalla madre per lo stato della camera, Ganbeto viene preso da una sorda irritazione:


Senza quasi pensarci brontolò: – Basta mamma, sto studiando! La frase gli si affievolì tra le labbra a mano a mano che la pronunciava, si rendeva conto che si trattava di qualcosa di sbagliato […]e si limitò a incassare la testa tra le spalle, certo che la mama non avrebbe tardato a fargli calare addosso una dose meritata di manrovesci. Invece niente. […] Lei lo fissava in silenzio, con la bocca semiaperta, con un’espressione di diffidenza dispiaciuta in viso, che gli fece più male di tutte le pappine ricevute nell’ultimo anno. […] Il peccato imperdonabile era stato che lui, volutamente, aveva sterzato sulla lingua della scuola, per metterla a tacere con un’arma mai usata prima… Aveva pure calcato a dovere la doppia, che rendeva diversa pure lei, che da sempre e per sempre era la mama.

Nell’altra situazione, una mattina, al momento di separarsi l’uno per la fabbrica, l’altro per la scuola, il padre richiama Ganbeto, dopo essersi accertato che nessuno fosse nei paraggi.


– Devo mettermi nel sindacato, – mugugnò il padre. – Alla fine firmo con la Fiom, ma prima di farmi infinocchiare voglio vederci un po’ chiaro. […] – Tua madre di queste cose non ci mastica, e poi le vengono i pensieri. Al prete ci conto già troppo i fatti miei. Io me la sono letta e riletta, e ho capito quasi tutto. Te guarda le parole che ti ho sottolineato, e mi dici cosa ne cavi fuori. Colto alla sprovvista, mentre tentava di ricavare il significato di «enti bilaterali» e di «ottemperanza», il ragazzo sentì che la voce gli tremava. Provava un miscuglio indefinibile di emozioni. Forse in un’altra situazione suo padre avrebbe chiesto al nonno.

Come in un triangolo, Ganbeto e i suoi genitori sono i vertici in cui il codice linguistici fanno pressione. Da un lato, la lingua scolastica che muove verso un’evoluzione positiva, anche se dolorosa come ogni forma di distacco e abbandono; dall’altro la lingua ridondante e oscura della burocrazia, che procede più per garbugli e misteri che per chiarezza e linearità. In entrambi i casi si ha l’impressione che le parole possedute manchino il bersaglio, stiano quasi come eidolon di un contenuto evanescente.


Le parole e le cose #3. Dei luoghi estremi


È ancora il nonno il protagonista dell’ultimo momento di epifania linguistica di questa lunghissima formazione che interessa Ganbeto. Ormai diventato mariner e assunto al posto del padre, Ganbeto scopre un’amara ed eclatante verità. Il giro che il nonno gli fa percorrere non è lo stesso dell’anno prima e quindi non passeranno nuovamente per Pellestrina, luogo della spesa galeotta. Inoltre si accorge di non riuscire a orientarsi nel dedalo di canali e rami fluviali.


Caronte non gli dice dove vanno, tantomeno dove si trovano, forse dà per scontato che tutti possano fare come lui, orientarsi annusando l’aria, riconoscere i paesi dai campanili, calcolare con esattezza le distanze sulla base delle combinazioni di vento e marea. […] stavolta… la Teresina ha svoltato a meridione, inoltrandosi in una rete di canali e fiumi che per Ganbeto sono un vero labirinto, di cui Caronte possiede le geometrie più intime: decine di nomi, e distanze espresse in giorni di navigazione, un ginepraio di fiumi che si articolano in affluenti che si subarticolano in canali… Finché se ne sta buona nei libri di scuola, la geografia non fa male a nessuno, ma a volerla tirar fuori e stenderla sul mondo vero, diventa un disastro un degheio vero e proprio. Un po’ alla volta inizia anche a comprendere che l’impero dei barcari non va preso alla leggera, e che forse il silenzio di Caronte, il suo non metterlo a parte di rotte e itinerari, è dovuto alla consapevolezza, maturata negli anni, che la conoscenza del fiume non può essere detta, ma solo fatta.

Alla fine del nostro itinerario di lettura, accostiamo la questione da un ulteriore e differente approdo. Ci sono aspetti della nostra esistenza che accadono e verso i quali ci dobbiamo porre come apprendisti silenziosi, e in cui il fare è tutto, e ci riporta all’originaria forma di apprendimento per imitazione che ci definisce nelle interazioni sociali primitive.

Nella storia lunga un anno di Ganbeto, che impara a muoversi e destreggiarsi nel dedalo di lingue d’acqua che attraversano e segnano una regione e segna la vita delle sue comunità, impariamo che il linguaggio, quell’impareggiabile strumento che ci caratterizza come esseri umani, può dire di tutto, ma non può dire tutto.



[1] Andrea Marcolongo, Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi, Mondadori, Milano 2021, p. 8

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