Alcune mie note di lettura sulla monografia dedicata da Elena Sbrojavacca alle opere e al pensiero di Roberto Calasso. Uno studio approfondito e preciso, puntuale e lucido su una delle figure più importanti della nostra letteratura. Un testo che mancava e va a coprire una lacuna degli studi letterari contemporanei.
Inutile. Tu vuoi indagare, spiegare. Non arriverai mai.
Voi tutti, visto un angelo all’angolo della strada, cosa fareste?
Te lo dico: gli contereste le penne. Per essere sicuri, per controllo.
Così siete.
Giovanni Arpino, Il buio e il miele
Hegel sosteneva che la filosofia nasce quando una civiltà è al tramonto, in ciò simile alla nottola sacra a Minerva, dea della sapienza: nel momento in cui una civiltà si compie e si avvia al suo declino, lì nasce la filosofia che si volta indietro e contempla, spiegandolo, il mondo. Non prima, perché è necessario che tutto quanto era in potenza sia stato attuato. Come corollario, ne viene che la filosofia non ha alcun desiderio – né alcuna possibilità – di modificare la realtà che si incarica di giustificare.
In un modo in apparenza simile va compiendosi, da quasi quarant’anni, l’opera di Roberto Calasso – o meglio: quell’insieme di testi che va sotto al nome di Opera – il cui autore si volge indietro e guarda un mondo che, realizzatosi, si è mosso verso il proprio declino e si assume – Calasso – il compito non già di spiegarlo, ma bensì di mostrarlo. La nottola ha preso il volo e al posto dello sguardo panottico e sintetico del filosofo, ha quello ricognitivo del narratore e del mitografo (il quale poggia sulle solide ed erudite basi del mitologo). Il che significa non che la letteratura sia declassata ad attività secondaria, ancillare – qualcuno direbbe ornativa – ma che anzi le spetta quel prezioso e altrimenti impraticabile compito gnoseologico che svicola dalla rude cancrena concettuale e si attua, nietzscheanamente, nel libero e generativo fluire immaginifico.
A questa lunghissima fatica letteraria, al profondo pensiero che la sostiene e la sostanzia, e alla fittissima rete di connessioni autoriali e letterarie nelle quali è inserita, è dedicata la monografia Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso di Elena Sbrojavacca, dottoressa di ricerca in Italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Come chiarisce senza troppi margini di dubbi il titolo e come anticipa l’autrice all’inizio del primo capitolo, i vari e acuti sforzi interpretativi della ricerca hanno come fulcro la messa in chiaro di «un concetto indissolubilmente legato allo scheletro del progetto calassiano, quello di letteratura assoluta».
Mostrare che cosa sia questa letteratura assoluta è dunque tra i principali compiti dell’ampio e dettagliato studio, nel quale l’autrice sceglie con efficacia di utilizzare lo stesso metodo di indagine su cui si basa l’Opera oggetto di studio; come vedremo più in dettaglio in seguito, a caratterizzare questa modalità interpretativa è, da un lato, l’utilizzo della analogia, cioè di quello strumento retorico che consente di avvicinare e comparare i testi, seguendo l’eco di somiglianze più o meno evidenti; dall’altro, una concezione del tempo in cui prevale la circolarità sulla linearità e sulla conseguente idea di progresso. Ecco che allora l’autrice rifugge da una singola – per altro impossibile – definizione esauriente e giocoforza riduttiva di Letteratura assoluta, e si dedica piuttosto a elencarne i tratti con cui di volta in volta appare nei testi calassiani; nel modo in cui, insomma, per Calasso è indispensabile slegarsi da qualsiasi ordine, cronologico o gerarchico o di genere, e anzi muoversi giocosamente in un indefinito orizzonte sincronico, e parlare così degli autori e farli parlare, e recuperarne ora un tratto ora un altro, e citarli in modo sparso ed epifanico – ma non gratuito né immediato –, e affondare le mani in una sorta di brodo generativo di detti contraddetti, sotto l’egida di un enciclopedismo che vada inteso non come sistematizzazione nozionistica del sapere, ma come movimento di ricerca e restituzione di un più superiore e non finalistico movimento di autocoscienza del tutto di cui ognuno fa parte.
Lo sprazzo, il lampo improvviso, appare l’unico modo che la verità ha di esprimersi, di lasciarsi intuire. Per ragioni tanto estetiche quanto metafisiche, dunque, Calasso vede nel concetto una forma di alterazione della verità. […] Onnivora per quanto concerne gli argomenti trattati; popolata di dèi; critica nei confronti della società moderna; sfrontata e ingannevole nei confronti del lettore, a cui richiede uno sforzo analogico per cogliere i nessi tra argomenti lontani; ossequiosa al solo imperativo formale: nessun concetto, a questo punto, sembra spiegare con maggior chiarezza la natura dell’opera calassiana di quello di “letteratura assoluta”. [p. 79]
La scrittura di Calasso muove verso una narrazione caleidoscopica, in cui si intrecciano senza sosta, alle proprie parole d’autore, citazioni dichiarate e citazioni sottaciute, che vengono amalgamate nel racconto, senza che sia sempre chiaro chi dice cosa, creando una mappa la cui totale decifrazione è possibile solo ricorrendo alle note, agli indici, alla bibliografia, estenuando in questo modo – au rebours – il tragitto di ricerca e scrittura compiuto da Calasso.
Il vasto bacino delle citazioni di cui Calasso infittisce i suoi libri è corredato al fondo dei volumi da un repertorio delle fonti […]. Questa operazione per gli apparati è una delle caratteristiche peculiari del “libro unico”. […] È evidente che, da un lato, essa comporti una disparità di accesso fra lettore e narratore… Dall’altro lato, mi sembra chiaro che Calasso desideri agevolare l’immersione del lettore nel testo ed evitare che esca dal flusso della narrazione per andare alla ricerca dei suoi riferimenti. [p. 72]
Questo aspetto, assieme alla libertà già accennata di rapporto con la materia narrativa (con le storie, i miti), dà ragione anche di una criticità sostanziale insita nell’Opera per come essa viene scritta. E cioè che di fronte a un sapere narrativo così disseminato e di così vaste dimensioni, il mitografo, pur cercandolo e desiderandolo, non riesce a fare ordine, a comporre un racconto coerente, in ciò accordandosi alla sostanza dispersiva del mito stesso.
L’unica forma possibile di coerenza, di stabilità, sembra dunque essere, dice Sbrojavacca, la forma, cioè lo stile.
Penso che la coerenza stilistica sia il più stringente anello di congiunzione tra i diversi volumi. Calasso non abbassa mai il suo livello di eleganza e ricercatezza formale, ma non impenna nemmeno verso virtuosismi sintattici o preziosismi lessicali; il registro è sempre alto, la lingua piana. [p. 75]
È lo stile, la lingua, insomma a tenere fermi nell’interminabile danza della narrazione, che è una sorta di annullamento festoso del tempo del mercante in favore di quello ludico in cui tutto rientra e si trasforma in una più ampia integrazione.
L’apparente similitudine, di cui si diceva sopra, è già di per sé frutto di un approccio letterario alla questione, con la sua vaghezza di immagini e similitudini, e dello sguardo analogico che gli pertiene. Tra questi due sguardi – il filosofico e il narrativo – tutto cambia, tutto è cambiato, essendo il primo sempre più interessato a una deriva di sterili concettualizzazioni della realtà, l’altro esprimendosi in una libera (assoluta) operazione funambolica, che segna il trionfo del pensiero metamorfico e offre riparo al sacro, costretto a migrare dal mondo religioso e dalla sua costituzionale espressione ritualistica. Il declino di cui abbiamo accennato – e qui declino non assume alcun valore negativo, alcuno stigma di condanna – trova il luogo privilegiato di espressione nell’area estrema della décadence e nel suo sentimento di chiusura netta nei confronti dell’alterità.
A fare da sostegno a questo sguardo onnicomprensivo e narrativo (da qualche parte si ricorre alla altrettanto efficace definizione di Gottfried Benn di “sguardo sommario”) c’è una concezione ciclica del tempo, che si riallaccia alla più antica sapienza rituale e, dopo varie riemersioni nel corso dei secoli, arriva fino alla grande avventura nietzscheana dell’eterno ritorno. Tale pensiero, spiega Sbrojavacca in vari punti dello studio, permette a Calasso di riflettere non soltanto sugli aspetti letterari della sua lunga ricerca, ma anche sulla storia e sul modo di raccontarla (la storiografia), sul rapporto uomo-natura, sulla configurazione che ha assunto la società, e sul modo di intendere la mente e la coscienza:
Nel mondo moderno, che nega l’esistenza di un ordine superiore a quello che l’uomo si autoimpone per vivere in società, la circolarità del tempo, che i riti celebravano collettivamente, è uno spauracchio inquietante; per funzionare a dovere, la macchina produttiva del mondo ha bisogno di un tempo lineare e progressivo. […] All’interno di una concezione ciclica del tempo, dunque, i molti protagonisti dell’Opera assumono un senso ulteriore rispetto a quello delle vicende terrene che li vedono coinvolti, diventando simboli di aspetti del reale che Calasso vuole illustrare. [pagg. 98-99]
La visione progressiva della storia è un prodotto dell’età moderna, il frutto di un irrigidimento nei confronti del tempo, il cui scorrere era stato per secoli scandito dai cicli naturali. Da un certo momento in poi, una visione ciclica del tempo è apparsa irragionevole, e qualsiasi confronto con il passato è stato impostato nei termini del contrasto, dell’alterità. [p. 100]
La propensione a scorgere il divino là dove è sempre stato, in primo luogo dunque nell’attività del nostro encefalo, è una questione che attraversa per intero l’opera di Calasso. Poiché la sua concezione non è lineare ma ciclica, i rapporti fra gli uomini e gli dèi alternano senza soluzione di continuità fasi di riconoscimento a fasi di distacco. [p. 175]
Le storie possono offrire alla mente una momentanea via d’uscita dalla prigione del corpo, un antidoto alla sua dipendenza dal tempo lineare; nella nube avvolgente del racconto, dove i piani temporali si mescolano e sono tutti compresenti, la mente riconosce la propria natura illimitata, la sua appartenenza al continuo. [pag. 229]
Sono temi cardine ai quali l’autrice dedica pagine di puntigliosa analisi con l’intento, tra gli altri, di mostrare fino a che punto i capitoli di questa lunga Opera siano tra loro omogenei e ricchi di rimandi, additando una coerenza di pensiero che la continua ricognizione sui testi non può non sostenere.
A fianco alla questione della concezione ciclica del tempo, che ripetiamo è di primaria importanza e che, oltre al luogo specifico dedicatole, al termine della prima parte, riemerge in diversi momenti come una costante, la riflessione sulla mente e sulla coscienza è altrettanto fondamentale per l’autrice sia all’interno del pensiero di Calasso, sia geograficamente, occupando la sezione centrale del libro; qui ne vengono affrontati gli snodi principali, alludendo soprattutto al costante e generativo rapporto intrattenuto da Calasso con la tradizione vedica, nella quale Calasso ritrova «testi che arrivano a porre le basi di qualsiasi riflessione sulla conoscenza con una lucidità avvicinabile alle indagini sulla teoria dei fondamenti dell’inizio del Novecento» [p. 108], e che lo confortano nella sua idea di una mente che è caratterizzata da un lato dalla distanza da una visione fisicalista e/o funzionalista, dall’altro dalla sua capacità di avere coscienza di sé e di essere in comunione col Tutto.
È davvero un momento centrale nel dipanarsi del pensiero di Calasso che, come mostra l’autrice, lo porta alla critica del razionalismo cartesiano e dell’idea meccanicistica di Soggetto che ne segue, attraverso un viaggio che, iniziato come visto dalla sapienza indiana, prosegue con la Gnosi, Plotino, Nietzsche, Edipo e corona con la giustificazione dell’altro strumento narrativo/interpretativo che abbiamo citato all’inizio: l’analogia.
Analogia e digitalità. Il cuore del discorso
E il più bello dei legami è quello che di se stesso e delle cose legate fa una sola cosa in grado supremo. E questo per sua natura nel modo più bello fa l'analogia[1].
Fin dall’inizio l’autrice ha chiaro quale sia il grimaldello speculativo per disserrare l’Opera: mostrarne il fondamento, costituito da un lato, appunto, dalla vasta distesa e verde della letteratura assoluta, così come è stata sopra indicata; dall’altro dallo strumento che è insieme di scrittura – poetico – e di lettura – gnoseologico – costituito dall’analogia. È l’analogia a permettere di muoversi con libertà, indagando e trascegliendo, oltrepassando barriere spaziali e temporali, in vista della autentica e sola collezione che sia significativa e che, circolarmente, contribuisca a comporre: quella delle opere di Letteratura assoluta, in ciò dunque portando a compimento il profondo significato dell’intelligere[2].
Questo uso smisurato e pervasivo dell’analogia è utile per la sua, chiamiamola, maestà: ogni testo, ogni racconto, rientra sotto il suo dominio. Ed è possibile perché il fondo di ogni storia occhieggia al racconto del mito, che è ovunque e da sempre, costituendo una verità primigenia, come scrive Elena Sbrojavacca in una pagina del secondo capitolo, dedicato al rendiconto dei testi che come capitoli separati, vanno a formare il Libro Unico di Calasso. L’analogia, che permette di ovunque andare e leggere per rintracciare prima e (ri)raccontare poi le vicinanze che emergono anche oltre ogni apparente contiguità, può esprimersi al meglio solo in quella forma, altrettanto assoluta, di sacrificio che è la lettura; è nella lettura che il proprio tempo e la propria totale dedizione vengono offerti al divino che sottende i testi, affrontandoli, slegandoli e rilegandoli con attenzione.
È in quest’ottica che l’autrice analizza e sintetizza il percorso autoriale (ma anche qui: è bene insistere a mio avviso sul fatto che l’autorialità è un’istanza diffusa, non autocratica) di Calasso sia dal punto di vista tematico che stilistico, come visto sopra:
Tutte le opere di Calasso sembrano indagare un tema centrale attraverso sollecitazioni e vie di fuga, senza scandagliarlo analiticamente con l’obiettivo di arrivare a qualche punto fermo, ma piuttosto sottoponendolo a un processo di diffrazione, scomponendolo in molte sfaccettature e “storie segrete”. (pag. 69)
Questo aspetto, a cui avevamo accennato già all’inizio, si integra ora con le conclusioni della riflessione sulla mente e sulla coscienza, tanto che l’analogia costituisce con la digitalità i due poli fondamentali della mente, sempre presenti e operanti, l’uno in supporto all’altro e mai in opposizione. Il fatto che la digitalità prevalga nel nostro tempo, deriva dalla sua presenta capacità di risolvere problemi, confortando l’illusione umana di controllare la natura, dominare il tempo, potendo sovrapporre pensiero e linguaggio.
La non coincidenza di pensiero e linguaggio è uno dei capisaldi teorici dell’Opera che, se da un lato si collega alla contrapposizione fra polo analogico e polo digitale, dall’altro fa da contraltare alla potenza delle immagini che per Calasso sono la prima forma di pensiero.
E sono le immagini a riportarci all’inizio e a chiudere il nostro discorso di lettura, ricollegando le fila aperte dal mito. Immagini e mito sono forme primigenie di pensiero, modi dell’analogia, vie di conoscenza che utilizza la sostituzione, imitativa o metaforica, e non tenta il dominio impositivo per convenzione.
Nella figura del narratore, parcellizzato e diffratto, e nella sua temporalità frastagliata e scossa, rimane traccia dell’uomo religioso del passato e del suo vivere all’interno di un tempo ciclico e rituale; la nottola di Calasso si alza in volo per dare conto di questo ultimo baluardo del fare sacro, ancora capace, sebbene a tratti con scarsa consapevolezza, di accordarsi al ritmo che accade qui e altrove, perennemente, contemporaneamente.
[1] Platone, Timeo, 31c, trad. it. di G. Reale in Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, p. 1363 [2] Sebbene le ragioni di un editore siano anche di altra natura, è chiaro che si sviluppa su strade parallele questa operazione di analisi critica da una parte, di attività editoriale dall’altra.
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