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Tentativo di esaurimento di un luogo letterario. Polpette, di Jacopo Masini

Alcune note di lettura su Polpette e altre storie brevissime di Jacopo Masini, appena pubblicato da Del Vecchio Editore.



Credo non se ne avrebbe a male Perec[1] se sapesse che ho preso in prestito e riaccomodato il titolo di un suo formidabile libro per introdurre qualche mia riflessione su Polpette e altre storie brevissime, di Jacopo Masini, edito da Del Vecchio Editore.


L’ho fatto in modo per così dire antifrastico, e coscientemente. Vediamo perché.


Perec sceglie un luogo parigino, un caffè di Place Saint-Sulpice, e sta seduto a guardarsi attorno; per tre giorni nell’ottobre del 1974 procede nel suo esperimento scopico compilando una lunga lista di “cose”. Lo spettatore – lui – è fermo nel suo luogo d’elezione e osserva, seleziona, annota, trascrive. Come dice l’autore:


Ci sono molte cose in place Saint-Sulpice; […] Di queste cose, molte, se non la maggior parte, sono state descritte, classificate, fotografate, raccontate o recensite. Nelle pagine che seguono, il mio intento è stato piuttosto quello di descrivere il resto: ciò di cui normalmente non si prende nota, ciò che non si osserva, ciò che non ha importanza: ciò che succede quando non succede niente, se non il tempo, le persone, le macchine e le nuvole.

L’esaurimento riguarda il cosa del narrare, che si fa elencazione di oggetti e itinerari e fatti ed eventi e stati. Non c’è alcun racconto, perché a interessare è quel niente che è quando niente succede, quando non c’è storia, quando il mondo non interessa e passa annegandosi nel troppo pieno dell’esistente. È un’operazione destinata al fallimento, la realtà essendo inesauribile, rispetto al potere dello sguardo. Che in più è fisso, inchiavardato al luogo innaturale deciso come punto di osservazione di un mondo colto nel suo ipotetico grado zero.



Il libro di Jacopo Masini sta dall’altra parte della barricata, rivolgendosi del tutto al come del narrare. Se Perec sceglie di tenere fisso il punto di vista per accogliere più dati possibili, Masini, che invece dello slittamento del PdV fa un suo potente strumento gnoseologico e diegetico come vedremo, tiene fisso il genere narrativo (la storia breve), muovendosi in uno spazio che va dalla riga alla mezza pagina scarsa, e lo usa per perlustrare e raccontare la (sua) realtà: non uno spazio narrativo specifico, né uno spazio reale e geolocalizzabile; non un tempo unico, né un tempo misurato dagli strumenti dell’uomo mercante. Tempo e spazio sono indefiniti perché, se pure non dichiarato esplicitamente e sempre, a interessare è l’ubiquità e l’atemporalità delle storie narrate, che interessano ciascuno anche per quel tanto di sé che è, e rimarrà, in potenza.


Polpette e altre storie brevissime si presenta come un catalogo di very short stories, di micro narrazioni, nel quale trova spazio come dicevo ogni (o quasi) sua possibile formulazione: oltre a testi assimilabili al racconto comunemente inteso, ne troviamo altri che hanno le forme della favola, del racconto mitologico, della parabola, dello sketch teatrale e di cabaret, dell’apologo, del proverbio, addirittura della barzelletta e del motto di spirito, nei quali è forse più evidente un tratto che però mi sento di attribuire ad ogni testo, e cioè la presenza di un’epifania, cioè della fulminea presa di coscienza di uno slittamento del reale capace di illuminare una zona altrimenti oscura. Che questo accada con finalità comiche è solo una delle sue possibili concretizzazioni, e i testi di Jacopo Masini lo dimostrano.


A questo proposito, come accennato sopra, val la pena di dare conto di quanto importante sia nell’economica generale del libro la scelta, che è assieme estetica ed etica, di non assumere mai un punto di vista fisso e definitivo. Questo sia nel senso che il narratore sempre cambia e, con lui, sempre mutano tono, stile, registro, lessico, situazioni; sia nel senso che all’interno delle storie stesse, pur nella loro brevità, è facile che il lettore si trovi spiazzato da un repentino cambio di prospettiva, come se guardasse il prestigiatore sul palco intento a illuderlo e a perderlo nelle sue magie.


MARCOLINO E IL MOSTRO
Si svegliò di soprassalto. Le impronte del mostro arrivavano fino al letto. Si fece coraggio e guardò sotto il letto. Non c’era. Scostò le coperte e mise un piede sul pavimento. Marcolino entrò in camera in quel momento: urlò e fuggì terrorizzato.

È un’operazione estetica, sì, ed etica, perché se volessimo cercare di recuperare la famosa morale in queste storie – occhieggiando a quella delle favole, prototipo della storia breve – potremmo trovarla nell’invito a complicare la nostra visione delle cose del mondo, andando al di là della classica divisione – ormai ridotta a luogo comune – della medaglia in due facce, comprendendo che più la società si evolve, più necessario è moltiplicare le considerazioni e le prospettive sul mondo:


IL CUBO E LA SFERA
– Sei un tipo troppo spigoloso per i miei gusti, – disse la Sfera al Cubo.
– Sarà, – disse il Cubo, – ma puoi guardarmi in faccia. Io ne ho sei, tu nemmeno una.
La Sfera rise e disse:
– Ti sbagli, ho tante facce quanti sono i punti sulla mia superficie: infinite.
Mentre la Sfera si allontanava rotolando, il Cubo, confuso, rimase immobile a riflettere, fermo sulla faccia che non poteva mostrare a nessuno.

Quello appena citato delle due facce della medaglia è un cosiddetto modo di dire; nel libro di Jacopo Masini non è raro trovare la problematizzazione anche di questo, e cioè dell’uso ormai incistato nel linguaggio di certe frasi fatte, un tempo vivaci, significative ed efficaci metafore, ed ora miseri e vuoti ornamenti linguistici. Non è possibile, sembra dire l’autore, accedere in modo inventivo al mondo se non ritornando a un lavoro sulla lingua che usiamo che sia anzitutto di consapevolezza e conoscenza, ma che si liberi poi nella creatività e nella personalizzazione:


Quando gli hanno spiegato che nel vocabolario poteva andare a controllare il significato delle parole è andato a comprarsene uno. Abaco, accidia, bennato, princisbecco: ha scoperto un mucchio di parole nuove e che lo facevano sorridere. Poi ha incontrato quelle che conosceva già. Nessuna definizione corrispondeva all’idea che se ne era fatto lui. Arrivato alla fine, ha chiuso il volume e ha cominciato a usare le parole come gli pareva.
– Sono vigoroso, – diceva quando aveva fame.
Oppure:
– Che giornata glabra, – quando c’era il sole.
Nessuno lo capiva più bene, ma gli pareva che le cose trovassero finalmente il loro posto.

Un altro e fondamentale aspetto delle storie di Jacopo è il loro rimandare, col loro stesso porsi, a una sorta di teoria della ricezione. È proprio in un universo di storie brevi, insomma, che l’attività di lettura, e quindi di decodifica, assume un rilievo ancor più importante perché maggiore è l’area ellittica dove l’interpretazione alligna; interpretazioni di livelli e intuizioni diversi, ma di uguale diritto perché ciascuno si orienta, nel paesaggio narrativo di Masini, appoggiandosi alle strumentazioni che ha in dotazione senza sentirsi mai fuori posto. Il merito di questo sta nella semplicità di queste polpette, caratteristica che solo un attento e conscio lavoro sul testo può raggiungere.


– Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio[2].

Come ci dice Calvino, da sempre l’uomo racconta storie, oralmente o attraverso la scrittura, ma sempre con la tacita consapevolezza che parte del lavoro spetta al singolo ascoltatore o lettore che questa storia intercetta.

Con Polpette e altre storie brevissime Jacopo Masini ci ha messo davanti una lunga esposizione di istantanee sul mondo, in cui personaggi, ambienti e storie forniscono al lettore altrettante tane del bianconiglio in cui entrare per mettersi, con estrema leggerezza, nella migliore e più difficile delle posizioni: quella critica.



[1] Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Trad. di Michele Zaffarano, lo potete trovare a questo link: http://www.iuav.it/Ateneo1/docenti/docenti201/Borelli-Gu/materiali-/A-A--2015-/LETTURE-SO/Perec-_Tentativo-di-esaurimento-di-un-luogo-parigino.pdf, da cui sono prese le citazioni. [2] Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, p. 137

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