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Recensione a Pietro e Paolo, di Mario Sobrero


Ma chi spera di leggere domani

una consolazione nelle righe

di piombo dei giornali; e chi le scrive

nell'afa delle redazioni, con le mani

di assassini devoti; e chi le nemiche

parole spia per farne scusa a sé,


sono compagni nostri! Che non credono

a nulla più se non alle parole

che hanno insegnate agli operai, parole

che ritornano a loro come fede

stravolta, o ira, o grido di chi vuole

quel che non ha ma più quel che non sa.

...

Franco Fortini, Al di là della speranza, V


Mario Sobrero non è scrittore di cui si parli o che si legga. Le notizie nei dizionari di letteratura, nelle enciclopedie sono scarse. Si sa che era giornalista e che ha lasciato quattro romanzi dei quali l'ultimo, Di padre in figlio, pare il migliore, il più bilanciato. Nacque a Torino nel 1883, come Guido Gozzano, e a Torino ambienta i suoi romanzi, trovando nella prima capitale del Regno d’Italia il luogo d’elezione per rendere al meglio le numerose tensioni sociali e civili di quegli anni.


In Pietro e Paolo (di cui Di padre in figlio costituisce una sorta di antefatto, raccontando vicende di una famiglia torinese dal 1892 alla fine della Prima guerra mondiale) si incontrano e si mescolano la Storia del biennio rosso e i suoi più noti e clamorosi eventi - le agitazioni operaie, gli scontri tra socialisti e fascisti, le occupazioni delle fabbriche, le violenze fasciste che preludono alla imminente presa di potere, etc. – e la storia di una famiglia di umilissima estrazione che di quegli eventi è chiamata a mostrare il riflesso nelle dinamiche interne, nelle scelte di vita, anche negli esiti ultimi dell’itinerario esistenziale, sempre in precario equilibrio tra moti spirituali – anche accesissimi, anche ideologici – e immediate e materiali necessità quotidiane. È in queste vicende che si ravvisa un eccesso di drammatizzazione, cedendo Sobrero alla tentazione di colorare in modo nettissimo i drammi che i suoi personaggi sono chiamati ad affrontare; ma si vedrà in seguito come questo innegabile patetismo possa essere integrato in un più ampio giudizio che mira a cogliere la visione narrativa maggiore e più alta dell’autore, che rende il romanzo un che di riuscito e coerente.


Pietro e Paolo sono due cugini. Quest’ultimo, ardito e fascista della primissima ora, è figlio di Davide il quale, da bambino, è stato tolto alla famiglia di origine da un benefattore, magistrato, che lo ha allevato, cresciuto, avviato agli studi di legge. La vita per Paolo è azione, decisa e anche violenta, se serve; è mantenimento delle divisioni sociali che premiano alcuni e annichiliscono i molti; è consapevolezza che esiste un tempo e che ciascuno è dentro al tempo in cui vive, non nei sogni delle sovrastrutture e dei teoremi.

Pietro è figlio di Michele, che a differenza del fratello è rimasto nella miseria famigliare vivendo una vita infelice che lo vedrà finire vittima della dipendenza dall’alcool. Pietro, al contrario del cugino, è invece un fervente socialista e sarà tra i più decisi sostenitori delle rivolte operaie e dell’occupazione delle fabbriche. Il suo idealismo, estremo, violento e incapace di intravedere la possibilità del compromesso, sarà alla base di un altrettanto feroce moto di disillusione e sconforto, che lo porterà ad un gesto tanto eclatante nei progetti quanto effimero nei risultati.



Nella figura di questo giovane, Sobrero esemplifica le speranze e le ansie di molti operai italiani; la nostra Penisola fu la nazione che, dopo la Germania, era ritenuto dalla III Internazionale quello più prossimo alla rivoluzione; e in effetti gli scioperi, che non interessavano solo gli operai ma furono un fenomeno di massa e che nel cosiddetto biennio rosso aumentarono di quattro volte, riuscirono ad ottenere risultati anche importanti, come la riduzione dell’orario giornaliero di lavoro a otto ore o un diffuso aumento salariale. Pietro e i suoi compagni sono protagonisti sia delle lette e degli scontri che si sviluppano, in modo a volte estremamente cruente, per le vie della città, sia di quell’evento decisivo che accadde nel Settembre del 1920, ovvero l’occupazione delle fabbriche. Fu questa escalation di eventi, unita al fatto che il PSI era divenuto il partito con la maggioranza relativa di voti, circa il 32%, a far credere che la rivoluzione fosse oramai a un passo.


Quello che la Storia ci insegna – l’intervento mediatore risolutivo di Giolitti a favore di un accordo tra operai e padroni, e il ruolo decisivo della divisione all’interno del partito tra massimalisti e riformisti – viene rappresentato efficacemente da Sobrero nella dinamica che interessa il piccolo gruppo capeggiato da Pietro e alcuni altri esponenti dei consigli di fabbrica, del giornalismo apertamente schierato, degli esponenti delle due fazioni politiche socialiste. Non ultimo, traspare con tutta evidenza che gli eventi di quel biennio, se furono certo agiti dalla massa esasperata dalle proprie condizioni e viziata dall’ottimismo che veniva da altrove, avevano insospettabili coautori gli stessi imprenditori che poteva appoggiarsi agli ingenti profitti ottenuti durante la guerra e ammortizzare le perdite dovute alle serrate, potendo così fiaccare le resistenze degli operai che infatti, in breve, risolsero di scendere agli accordi proposti. Se per molti questi accordi rappresentarono comunque un successo, per altri sancirono la frustrazione di un desiderio e la definitiva sconfitta di un’idea. Pietro era tra questi.


Allora il meccanico si trovò a un tratto già proprio solo, per sempre, fra le trincee e i reticolati, al piede delle alte terrazze munite di mitragliatrici, solo con quelle armi che non servivano a niente. E rimase immobile, con le braccia abbandonate, come se avesse lasciato ricadere un peso troppo greve per le forze di un uomo.


A fare da punto di riferimento imprescindibile ancorché distante è la Russia che esce dalla Rivoluzione e dalla Guerra e che si trova dilaniata, tra il 1918 e il1920, da una spaventosa guerra civile, dove i conservatori e i socialrivoluzionari – favoriti dalle potenze dell’Intesa – contrastarono i bolscevichi che dovettero altresì far fronte a una terribile carestia e al crollo della produzione industriale.

Anche le voci sulle condizioni miserabili degli operai russi, che giungono in Italia per vie diverse ed anche tramite la viva testimonianza di chi in Russia c’è stato, aiutano a minare la stabile solidità del fronte operaio nel romanzo di Sobrero, che di fronte alla prime difficoltà successive all’occupazione delle fabbriche pare sgretolarsi senza alcuna possibilità di intervento.


Il Carabello gli si accostò all’improvviso quasi volesse batterlo: «Ma, testa del diavolo, fare! Per ottenere che cosa? Per arrivare dove? Alla condizione in cui si trovano in Russia? Io l’ho visata, caro mio, la Russia! Ci sono stato, io!».


Se il titolo pare indicare nei due cugini i protagonisti della storia, a mio avviso, il vero centro narrativo è da ricercare altrove e cioè, pur con diversi peso quantitativo e tratteggio qualitativo, nelle figure di Davide e della moglie Clelia, che costituiscono i due fuochi dell’ellisse costituita dal romanzo di Sobrero. Un’immagine che serve a dare conto di come, nel corso della storia e della sua narrazione, ci troviamo a velocità diverse, dipendenti ora più dallo sguardo e dall’inquisizione continua di Davide, ora più dal silenzio e dall’attesa di Clelia.

In Davide si situa senza dubbio la focalizzazione privilegiata dal narratore per filtrare sia la narrazione degli eventi sia l’interpretazione dell’azione dei personaggi e delle relazioni tra di essi. Il suo essere spurio, metà povero (per familiarità e origine, che non dimentica), metà benestante (per caso e per crescita) lo fa quasi simile ai demoni di cui parla Diotima nel Simposio, esseri capaci di mediare tra due entità diverse che sono, in quel caso, Dèi ed esseri umani, gli eterni e gli effimeri, mentre qui sono i derelitti che vogliono rompere la rigida differenza di stato, da un lato, e i conservatori difensori dello status quo dall’altro. Una mediazione, la sua, priva di certezze, autenticamente domandante, se non maieutica certo onesta e sofferta.


L’indagine di Davide, consapevole in modo quasi doloroso della fortuna che gli è toccata e di cui non può credersi meritevole perché del tutto fortuita, è quella di uno studioso del diritto che sa che le vicende umane si dispiegano nel lungo periodo e che sa al pari che esistono leggi applicabili (o rinvenibili) anche nelle dinamiche sociali, leggi ineluttabili, leggi che pur applicandosi sul tempo e sul luogo che ogni singolo abita, pure sono comprensibili quando l’analisi si stacca dal particolare e prova a considerare il generale. Ed è in questa analisi ampi che può trovare riposo l’ansia che tanto il nipote, quanto il figlio, pur mossi da ideali diversi e opposti, mostravano di sentire e patire ad un tempo:


Tanto dolore, tante lotte, tanto travaglio non erano dunque senza esito. Le parole dei profeti, dei santi, degli agitatori, non cadevano nel silenzio del deserto. L’elevazione era lentissima; un secolo bastava appena a segnarne uno stadio; né essa poteva dare agli uomini l’assurda felicità. […] Nell’avvenire senza limiti che la turba dei vivi aveva dinnanzi a sé, questa marcia in avanti non si poteva arrestare.


Dall'altra parte troviamo, come fuoco tenue se vogliamo, la moglie Clelia, rimasta immobile e quasi silente nell’attesa che il figlio Mimo torni dalla guerra, finita ormai da più di due anni e nonostante le notizie già arrivate, pur non dando alcunché di certo, indichino che non c’è niente di buono da sperare.

Clelia e Davide hanno già perduto una figlia, ma questa attesa incerta, incapace di annullare la speranza, lascia Clelia in un estremo torpore fatto di soliloqui, preghiere, richieste di novità ai familiari che non sanno più cosa fare e decidono di pronunciare le parole fin troppo taciute e dare per certo ciò che certo non è ma probabilissimo:


Davide si fece animo e disse: «Oh, Mimo non può tornare… Lo sai. Lo sappiamo tutti». Lo sguardo di Clelia, ridivenuto limpido, palesò un’attenzione intensa: «Perché? Non è vero! Perché non può?». Si udiva il suo respiro affrettato. Antonietta e gli altri, senza parlare, si protendevano verso di lei, in uno slancio dell’anima, come per riprenderla col loro amore e ricondurla nella vita.

«Dalla guerra, mia cara Clelia», disse ancora Davide, «quanti non sono più ritornati! E non torneranno mai».

«I morti», soffiò la donna. Rimase assorta; quindi soggiunse, col suo accento di enorme meraviglia: «Morto?! Tu vuoi dire che è morto…? Ma quando?».

[…]

La donna si alzò, adagio, si mise a camminare per la stanza, eretta volgendo intorno gli occhi senza guardare i parenti che la studiavano ansiosi. «Allora è proprio morto…», disse tra sé. «È morto Mimo!». Sembrava che la sventura fosse accaduta quel giorno ma ch’ella non potesse comprenderla interamente. Uscì col suo passo senza rumore, come se intorno a lei non vi fosse più alcuno.


È un passo di una luminosa e drammatica bellezza, come molti ce ne sono nel romanzo. Clelia, contraltare del marito, rappresenta la solitudine, l’introversione, il dramma vissuto non socialmente e comunitariamente, ma in modo privato e personale, privo di sbocchi e di requie se non nel conversione al totalmente altro, al divino che potrebbe, se mai, intercedere. È la figura dell’immobilità e del silenzio, la classica mater dolorosa consegnata da una secolare tradizione, ma che nel romanzo trova più complessità grazie al frequente rinvio che Sobrero fa al tema del fantasma e dell’ombra, riuscendo così a togliere il sospetto che ci possa essere, in quel continuo soliloquio con la divinità, la certezza che nella fede stia la salvezza. Piuttosto rimane tutta la precarietà del rischio, della scommessa, che risulta la vera cifra di qualsiasi atto di un credente. Nel suo sfinito ritrarsi in se stessa, Clelia assume anche i contorni delle anime che popolano l’Ade, nei poemi epici, a sottolineare come il dolore comporti anche una consunzione che i racconti religiosi non contemplano.


Stava ora quasi sempre nella propria camera, seduta presso la finestra, tenendo tra le mani un libro di preghiere che non leggeva. Nella camera di Mimo passava brevi momenti. Parlava sempre più di rado; interpellata, spesso non dava risposta; ogni suo movimento, ogni cenno rivelava una stanchezza enorme. Davide e le figlie avrebbero dato il proprio sangue per vederla ridiventare viva, o almeno per impedire che si avvicinasse alla fine. […] Non voleva ormai alcun nutrimento, quasi non avesse più corpo.


La figura dolentissima di Clelia serve anche a Sobrero per indicare, seppure di lontano, da un punto di vista non solo storico, non solo sociale, il terrore e la devastazione che la guerra lascia come detrito mai riciclabile, nelle coscienze e nei cuori delle persone, nelle loro memorie travagliate e incise dall’acuminata lama della morte.


Pietro e Paolo è un grande romanzo italiano del Novecento. Dimenticato, come il suo autore, sicuramente poco letto. La speranza è che questa nuova edizione, complice anche la cura della stampa e dell’impaginazione da parte di Reader for blind, gratifichi entrambi, a quasi un secolo di distanza, dell’attenzione che meritano.


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