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Nei giorni per versi, di Anna Maria Curci

Inizio l'anno con la poesia, riprendendo in mano un libro di qualche anno fa che ancora attendeva.


Ma si sa, la parola poetica non ha scadenza, non passa, solo riverbera in forme più rade men rade, a seconda dei tempi che viviamo.

La raccolta si intitola Nei giorni per versi, l'autrice è Anna Maria Curci e l'editore è Danilo Mandolini, anima di Arcipelago Itaca.


Dico subito che questi testi mi sono cari per valore oggettivo, ma anche perché vengono da un'idea ed esigenza comune alla mia che mi mosse a scrivere Vuoti d'ossa (uscito sempre per Arcipelago Itaca) e cioè la volontà di ingabbiare il testo poetico, mettere alla prova la scrittura, la dizione, la fantasia poetante, costringere il verso a stare nel limite e perciò arrovellarsi affinché scaturisca non necessariamente questo ma più probabilmente quell'altro.




È l'intenzione originaria, almeno quella che io riconosco, perché è l'intenzione della commedia dantesca, apice e origine di ogni discorso.


E come per Dante la gabbia ha promosso una invenzione continua (di immagini, certo, di retoriche, certo, ma anche di parole inaudite che popolano il nostro linguaggio, laddove ancora qualcuno lo parla), così in questa raccolta è ovunque chiaro lo sforzo (streben) di modellare il pensiero in versi, giorno dopo giorno, scandendo un lungo periodo di vita (5 anni, ci dice l'autrice) in un blues di centosettantatré quartine di endecasillabi dove conta parimenti ciò che appare e ciò che deve necessariamente cadere per elisioni, mancare per ellissi, stupire per dislocamenti e anastrofi.


In chi è abituato a lavorare sulle parole, quelle altrui intendo, come traduzione ad esempio, o come redazione ed editing, la gabbia esercita una indomabile attrazione, perché medesimo è il lavoro di cura e ricerca, il momento esatto di profonda arte oratoria in cui si rinnova l'inventio e si perfezionano dispositio ed elocutio.


E non a caso, tra le molte, trovo particolarmente riuscite quelle quartine che hanno a che fare con la parola, con la scrittura e la lettura, insomma con l'arte e la tecnica necessarie alla cura del dire.


LXXV

Come tenente Drogo dei refusi

presidio una fortezza smantellata.

Le orbite, un retino da farfalle

bucherellato, non acchiappa niente.


LXXVIII

Come a un calzino rivoltato in dentro

vado tastando buchi e cuciture

a te, mistero, decriptato a sbafo,

che ritorni per essere incompreso.


CLXXII

Arrivano così, le note liete,

novelle di attenzione e di tenacia.

Legge qualcuno, e studia, e si ricorda

che tradurre e formare vanno insieme.


Una raccolta che puntella solidamente una sorta di archivio di visioni improvvise che chiedono, al lettore, un altrettale sforzo immaginativo, una sorta di scarto, di sterzata improvvisa, perché così solo si evita il naufragio nella banalità del dire, ormai solo maschera imbellettata. Così solo si oppone resistenza all'inganno del dire mellifluo, al fraintendimento non già lessicale, ma poetico in senso primigenio, che investe il perché si dice e si scrive.


XLV

Le lupe travestite da vestali

schiamazzano l'amore per la musa.

Opponi studio e pazienza, tu lisa

palandrana da troppi rivoltata.


XCII

Fu quando ritoccasti quella foto

che compresi lo strazio a noi occultato.

Gorgogliava lo squarcio senza fondo

la maculata trasfigurazione.


Ed in simile archivio, la questione del tempo si fa di lato, ogni tappa vive di una sua assolutezza apodittica, per sempre valida, e questo concorre a lasciare, a lettura ultimata, non l'impressione di qualcosa che si dispieghi e chiarisca, ma piuttosto che si colleghi e pure s'aggrovigli, o che ritorni in differente ciclicità, perché al poeta in fondo spetta non l'elogio ma lo stupore della complessità.


XXXVII

Un file sbagliato annesso ad un messaggio

mi porta indietro all'epoca glaciale.

Indietro o avanti? Mentre righe scrollo

m'avvedo: pozza immota è quello spazio.


LVII

Mio padre coltivava le tagete

nell'orticello lungo il litorale.

Non la capivo, allora, devozione,

mutevole com'ero e come sono.


LXIV

Taci adesso, compagna mia rabbiosa,

tu lingua che vuoi essere fedele,

a cosa poi, soldatino di stagno,

il cuore tuo l'ha già dimenticato.


Una raccolta, infine, che ricorre in modo misurato anche all'ironia e al gioco linguistico, e che si muove leggera e senza ostentazione nella tradizione letteraria, che fa fruttare tra ricorsi alla leggenda e al mito (Sherazade, Penelope, Dafne, Crono... ) e omaggi al nostro thesaurus lirico (Dante, lo Stilnovismo, Montale, Cavalli, Valduga).


CLVII

Fratello mio capzioso, i tuoi carpiati

picchiano su copioni a pappa e Gorgia.

Allibratore trito, nel pattume

suonano a vuoto i tuffi tuoi sui lemmi.

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