L'aria de 'sta città fa innamorare,
il suo profumo dona felicità,
in gondola van gli amanti per sognare,
vecchia Venezia tu sei sempre uguale.
Venite o forestieri ad ammirare Venezia,
la Ca' d'Oro e il suo bel mar.
(Vecchia Venezia)
Per il suo nuovo romanzo, fresco di stampa, Paolo Malaguti cambia.
Editore: dopo due romanzi di sostanza e riscontro critico pubblicati con Neri Pozza, passa a Solferino, la casa editrice del gruppo RCS nata nel 2018 il cui nome stesso omaggia la via in cui è la storica sede del Corriere della Sera.
Struttura: la vicenda narrata ha quattro personaggi principali, che vengono seguiti nel giorno in cui tutto accade. Malaguti sceglie dunque di costruire il romanzo affidandosi al montaggio alternato delle singole storie in modo che solo nel finale ogni traccia converga. È un intreccio a incastro scandito dallo scorrere delle ore di un’unica giornata, con salti temporali e rimandi continui che donano ritmo alla narrazione.
Genere: anche se qui le cose si complicano appena. Non è un romanzo storico, come quelli a cui Malaguti ci ha abituati fino a ora. Non è un romanzo storico così come la tradizione ce l’ha consegnato, fino alle più recenti prove di un genere che dalla sua comparsa ha vissuto molte fortunate rinascite. Non è nemmeno avvicinabile alle cosiddette ucronie, romanzi sì storici, ma guidati dalla domanda: “cosa sarebbe successo se…?”. È ambientato in una immaginaria Venezia del futuro, l’ultimo giorno di carnevale del 2080 e, a rigore, già questo basterebbe ad escluderlo dal genere storico.
Eppure. Cosa voleva davvero Manzoni, scrivendo I Promessi Sposi, lui che ben conosceva l’opera di Scott e che in fondo ad essa guardava? Non raggiungere lo scopo di intrattenere il lettore, in modo anche un po’ consolatorio e senza curarsi troppo dell’adesione alla verità storica; piuttosto, riflettere sulla Storia e provare a capire come le relazioni tra gli esseri umani si formino e si sfacciano all’interno di questo scenario e quanto sia in loro potere fare e quanto invece sia in loro sorte subire[1]. Manzoni cercava e forniva una prospettiva nuova sulla Storia attraverso le storie degli umili e umilissimi calati in un contesto definito, noto (cioè storicamente determinato). Alla base di tutto c’era l’intenzione di mantenere unite in modo coerente e omogeneo la riflessione storica, la riflessione morale, la polemica critica, la invenzione poetica.
Al proposito, nella famosa lettera a Claude Fauriel del 29 maggio 1822, Alessandro Manzoni cerca di spiegare i motivi che lo hanno indotto a scegliere il soggetto del romanzo, definendolo come:
uno stato della società veramente straordinario, dato dalla compresenza del governo più arbitrario, di anarchia feudale e anarchia popolare, legislazione stupefacente, ignoranza profonda e feroce, classi con interessi e massime opposte e di tutto in gradazione assai sviluppata.
Uno scenario chiaro, definito, e relativo in modo preciso ad una certa zona in un certo volgere di tempo del 1630; ma valido sempre, perché esemplare di come l’essere umano si conduce nelle azioni, si produce nelle riflessioni, si riduce nelle passioni.
E il governo arbitrario, l’ignoranza profonda, gli interessi e le massime che si oppongono tra una classe e l’altra, una sorta di privazione di principi diffusa, sono lo stesso granitico fondamento della Venezia – della penisola tutta, in filigrana – immaginata da Malaguti, o meglio, della gestione politica e privatistica che di quella Venezia, nello scenario immaginato da Malaguti, si darà. È insieme una visione di quale posto gli umili – i Venesiani – in simile scenario occuperanno, rispetto alle esigenze altrui, rispetto al corso di una Storia in cui la provvidenza non ha alcun plausibile ruolo.
A fare da collante in questa storia – questo è un elemento che invece collega il romanzo ai suoi antecedenti – è la lingua: un dialetto veneziano medio che funge da codice, non segreto ma quasi iniziatico, un simbolo di resistenza, oltre che una chiave di volta dell’edificio memoriale proprio a ciascun personaggio. Si sta assieme cullati dalla cantilena linguistica come dalle onde dell’acqua che ormai ha coperto tutta la città, evidenziando agli occhi quell’annegamento esiziale che avrebbe dovuto essere evidente alla mente da decenni e che invece è stato, colpevolmente forse, minimizzato se non negato. Rispetto a questo tema, quello di Malaguti è un disegno allarmante, soprattutto nella misura in cui ciò che di sclerotizzato emerge non sembra tanto l’esito vivido di una fervida invenzione poetica, quanto la semplice deduzione dai fatti che ci consegna la realtà odierna.
L’ultimo carnevale è anche – forse, al fondo, soprattutto – una storia d’amore. Amore mancato, amore perduto, amore senza fine. Amore per una donna, per una città, per un’idea. Colpisce, in questo romanzo, l’intreccio mai banale tra storia, progetto e memoria. Nella piccola vicenda di Giobbe – qui come altrove, il giusto che affronta le avversità, come nella grande vicenda di Venezia, quanto può contare l’esistenza quando si allontana irreparabilmente dalla vita? Che qualità hanno le energie che mettiamo nelle nostre azioni, nel fare cui ossessivamente ci dedichiamo, se non si radicano in un terreno solido di immagini e voci e storie del nostro passato che continuamente possiamo rimodulare e ricreare per tracciare il futuro che vogliamo?
Come dice l’autore nella dedica iniziale, dovremmo poterci affidare più spesso alla parte giovane e ribelle del nostro animo. Anche se attorno, come salisse da inesausti canali limacciosi, c’è ovunque caìgo.
Paolo Malaguti - L’ultimo carnevale
Solferino, 2019, Milano
Pagg. 320 - 17,00 euro
Su Venezia:
Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce, Feltrinelli, 2013, Milano
Di Paolo Malaguti:
La reliquia di Costantinopoli, Neri Pozza, 2015, Vicenza
Prima dell'alba, Neri Pozza, 2017, Vicenza
Lungo la pedemontana, Marsilio, 2018, Venezia
[1] Scriveva Lanfranco Caretti, su Manzoni e sulla sua idea di romanzo storico, che egli «ha sottratto alla storia il carattere di semplice cornice scenografica e ne ha rappresentato invece la tragica connessione con il destino degli uomini, grandi e piccoli». Vedi L. Caretti, Manzoni milanese, in Manzoni, Dante e altri studi, Ricciardi, Milano-Napoli 1964.
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