Nel suo ultimo romanzo Antonio Bortoluzzi affronta il tema della memoria da una prospettiva inedita. Le amate montagne e i ricordi ad esse legati da un lato, la città moderna e le lacerazioni inumane dall’altro, sono i due estremi di una tensione pulsionale che trova nel crimine prima, nell’amore poi, due insospettabili forme di sublimazione.
Prima premessa
Il giunto cardanico, o cardano, deve il suo nome al matematico e filosofo italiano Gerolamo Cardano, uomo poliedrico e figura tipo del pensatore universale e enciclopedico rinascimentale. Egli riscoprì quella che era stata invenzione greca e ne scrisse in una sua opera destinata a discreto successo.
Il cardano è utilizzato in meccanica in modo assai diffuso, permette di trasmettere il moto rotatorio da un asse a un altro con il quale forma un certo angolo.
Fissò il giunto cardanico: un accoppiamento che funzionava da secoli per condurre una forza motrice in due direzioni diverse passando per un unico punto di incontro. Era quello il cuore dell’attrezzo, il punto più delicato[1].
Seconda premessa
Bortoluzzi lavora innanzitutto sulla dimensione spaziale, sull’ambientazione, e su quella temporale. Dopo la trilogia dedicata alla montagna, in cui Bortoluzzi cantava ad un tempo un luogo mitico e una comunità umana legata alla tradizione e a una codificazione di gesti quasi inalterabili, in questo romanzo passa a occuparsi del presente, delle tensioni e delle lacerazioni che contraddistinguono le relazioni umane e del posto simbolo di questa deriva umana: la fabbrica. Non scompaiono le amate sue montagne, ma si fanno ora fondale, ora luogo familiare, ora viva possibilità di buen retiro.
È la fabbrica tuttavia ad imporsi e a fornire le coordinate entro le quali i due protagonisti, Valentino e Massimo, addetti alla manutenzione per la Filati Dolomiti, si muovono e ordiscono la loro trama. Un posto grigio e popolato di persone chiuse, spesso così simili da impedire ogni distinzione positiva; un posto morente in cui il tempo è scandito dai turni che si ripetono ciclicamente, sempre uguali, in cui la costanza del ritorno dell’identico assomiglia più alla condanna di Sisifo, che all’abisso nietzscheano.
Terza premessa
Le parole contano. Le parole si contano.
Nel testo di Bortoluzzi la parola che conta è quella data al padre, a quattordici anni, di non rubare più; mentre le parole che si contano di più sono: lavoro, casa, fabbrica, amico. La parola che conta è raccontata una prima volta nel prologo, una seconda volta quasi a metà del libro, quando l’episodio viene narrato per esteso. Le parole che si contano compaiono lungo tutto il testo, come si può intuire, e casa è quella che troviamo sia nel primo che nell’ultimo capitolo. Se la fabbrica è il posto più importante del romanzo, la casa ne è il suo luogo centrale, il suo nucleo. È un concetto esteso che prende diverse forme: la casa di Valentino bambino, la casa di Valentino sposato, la casa di Valentino adulto, dove si incontra con Massimo prima, con Yu dopo; infine la casa che potrà essere di Valentino e Yu. Anche la parola lavoro è usata come concetto esteso: è l’attività dei due amici, quella salariata; è il destino dell’uomo e che l’uomo del Nord-Est assume insieme come colpa e come redenzione; è il piano escogitato dai due per abbandonare una vita che li umilia e realizzare un sogno; è l’insieme delle cose da fare, sovratemporale, quasi mitico, in questo prossimo alla fatica; è infine l’hobby, inteso come svago ma sempre e comunque come attività. Se solo in quest’ultimo caso può prevedere la solitudine, il lavoro è altrimenti sempre con qualcuno, intercetta un insieme di colleghi, superiori, clienti, mandanti, fornitori, predecessori. Per Valentino e Massimo lavoro è anche ciò che ogni giorno li fa stare con l’amico, che è l’ultima parola chiave del testo. Un’amicizia di lunga data, all’apparenza solida, forse resa per lungo tempo inossidabile dalla profonda differenza dei due temperamenti, dal modo opposto seppur egualmente consumistico che i due hanno di rivolgersi alla realtà: immobile, depressivo e autodistruttivo quello di Valentino; orgiastico, vitalistico, iracondo quello di Massimo. Un’amicizia che tuttavia tiene, nonostante la profonda crepa che li separa a un certo punto e che viene rimessa in circolo tra le cose. Il titolo del romanzo, allora, rimanda anche alla gestione di Massimo del tradimento di Valentino. Tacere è il modo di fare le cose.
Conclusione
Una delle due citazioni messe ad epigrafe, quella di Levi[2], ci offre una preziosa chiave di lettura del romanzo: l’idea cioè che la contentezza di vivere stia nell’avere delle occupazioni e dei sogni, intesi come desideri, mire, brame, ma solo e fintanto che questi sono o appaiono come gli utensili del lavoro: a portata di mano. Finché il piano di Massimo sembra a portata di mano, i due compari vanno avanti spediti, sostenendo a vicenda la speranza dell’altro. Sono in due, sono un noi. Il resto del mondo è esterno al cerchio magico del loro sogno comune, raccontato al passato. La moglie di Valentino, le morose di Massimo, le attività di cui via via Massimo s’appassiona, la casa dove Valentino abitava da piccolo: sono istantanee di un album sfogliato in fretta.
È nel momento in cui fa la sua apparizione l’altro nella figura minuta e dolce e odorosa di Yu (che è come dire tu, in inglese, come dire lui, l’altro, in dialetto), il piano smette di essere una cosa da fare, una cosa da desiderare.
In corriera è salita Yu, le ho fatto posto e lei mi ha dato una scatolina di cartone. Dentro c’era un lettore mp3 sbucciato negli angoli. Mi ha sorriso e mi ha detto: È mille canzoni! Era raggiante e odorava di fritto. Ma appena appena. Sarà stata la tigre bianca, il regalo di Yu, le nuvole che serravano il cielo. Ma per la prima volta in vita mia ho sentito d’avere un pezzetto di mondo a portata di mano[3].
Questo incontro, questo bell’incontro, è fatale per il rapporto tra Massimo e Valentino, è quello che mette in chiaro in modo definitivo come si fanno certe cose. Il confronto tra questi due momenti dovrebbe chiarire cosa intendo:
Dopo anni di matrimonio non avevo nulla da raccontargli e lui, al contrario, un’infinità di cose. Viveva solo, dopo che sua madre era morta. Lavorava alla Filati Dolomiti come caporeparto della manutenzione e s’era fatto un sacco di ragazze. Andava a pescare, camminava in montagna, scalava, aveva fatto un corso di subacquea, ascoltava jazz. Una volta era stato perfino sul deltaplano con un istruttore. E sembrava felice. Era stato lui a trovarmi il posto in officina[4].
Stavamo scendendo in auto dall’altopiano quando è squillato il mio telefono. Anche Massimo è rimasto sorpreso. Ho risposto, era Yu. Aveva la voce d’un tono più basso del solito, un sussurro avvolgente e dolce. […] Massimo guidava e ogni tanto mi dava un’occhiata indagatrice e finita la telefonata mi ha chiesto chi fosse. […] Mi ha fatto alcune domande a cui non ho saputo rispondere: da che posto della Cina? da quanto è in Italia? è impegnata? Gli ho detto che mi ha regalato un mp3 e lui ha detto: Sarà mica una cineseria, eh?, e ha riso di gusto. Non gli ho detto della carezza e che non vedo l’ora d’incontrarla. E nemmeno di quel vago sentore di frittura che ha sempre addosso. O degli occhi limpidi[5].
Yu sposta il silenzio di Valentino dalla mancanza di cose da dire alla reticenza. Lauramaria era un deserto, Yu è un segreto. Ed è così che si fa coi segreti, si trattengono al di qua della soglia, prima che le parole dette e condivise con gli altri li rendano una di quelle piccole cose a cui ormai tutti si stanno abituando.
«Sai? Credo d’aver capito cosa c’è che non va.» […]
«Sono le piccole cose.» […]
«Ah. E sarebbero?»
«La pizza, la birra, le sigarette, prendere il giornale, portare fuori il cane, una settimana di vacanza, un libro, un film, un concerto, lo smartphone nuovo.»
«E questo sarebbe il grosso problema?»
«Le nostre vite sono piene di oggetti, piccole cose. Una giacca, i pantaloni di marca. Oggi, al posto della rivoluzione, per cambiare la vita si sogna sulla striscia nera di un gratta e vinci del cazzo! […] Viviamo dentro un susseguirsi di piccole cose. Sono tante, colorate, luccicanti, ma sono piccole e non contano nulla.»[6]
Nel momento in cui compare Yu, il punto delicatissimo al centro del cardano, il suo cuore, smette di funzionare e l’attrezzo si rompe, destinando uno dei due assi alla rottura definitiva. Niente più casa, lavoro né fabbrica per Massimo. Rimane solo l’amico di un tempo al quale riserva l’ultimo gesto d’amore, salvandolo, concedendogli un ulteriore capitale di speranza.
Il romanzo ha un movimento circolare, come abbiamo visto. Si apre e si chiude sulla stessa serie di immagini che rimandano a un Valentino bambino per la strada di Piàie, l’attenzione e i sensi rivolti al freddo dell’acqua, al gelo della neve, alla ruggine della canaletta di scolo, ai monti. Eppure qualcosa è cambiato.
Nel primo capitolo, Valentino, nel ricordo, percorre la strada in discesa, dal borgo di Piàie al paese. Nell’ultimo capitolo lo fa in salita:
Valentino fuggì con la mente dalla fabbrica e prese ancora una volta la strada in salita che portava a Piàie, la stessa di quando era bambino; si concentrò sui cumuli di neve, sulle cose inanimate, sparse, immobili, irriconoscibili sotto il manto bianco, tentò d’indovinare il muretto, il vecchio salice di confine, la canaletta di scolo, l’albero caduto. Cercò lì, sotto la neve che ottunde i ricordi, le ultime settimane vissute con Massimo; e, tra le cose che avevano fatto insieme, un segno che potesse svelare il segreto del suo destino con Yu, la casa, il borgo, perfino il grande sogno di una comunità che rinasce. E desiderò con tutto se stesso che il disgelo degli eventi portasse ancora una primavera[7].
Sono scomparse le persone che popolavano quei luoghi e che con maggiore o minore frequenza hanno fatto compagnia al protagonista nel corso dei capitoli. Si concentra sulla cose inanimate, dice, e cerca di venire a capo di ciò che gli eventi appena accaduti rappresentano. È un dubbio del protagonista e insieme una dichiarazione di poetica che vale per l’autore del romanzo.
Se i ricordi aggettano troppo sul presente, la loro ombra rischia di coprire i nostri passi, rendendoli insicuri, malcerti, addirittura rivolti alla direzione sbagliata. Se i ricordi occupano il territorio della nostra mente, impediscono alla memoria di lavorare come dovrebbe, cioè come base vitale e esistenziale per l’invenzione continua del futuro.
A nulla valgono le parole date, le promesse sancite, gli impegni presi nel passato, se li confiniamo nel cemento di una lapide e non li inveriamo ogni giorno nella fiducia dell’altro.
Antonio Bortoluzzi, Come si fanno le cose
Marsilio, 2019
pp. 214, € 16,00
[1] Antonio Bortoluzzi, Come si fanno le cose, Marsilio, Venezia 2019, p. 208
[2] “Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci”, da La chiave a stella, Einaudi, Torino.
[3] Antonio Bortoluzzi, Come si fanno le cose, p.116
[4] Ibid., p. 52
[5] Ibid., pp. 121-122
[6] Ibid., pp. 155-156
[7] Ibid., p. 209
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