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L’angelo di Monaco, di Fabiano Massimi

Storia di un’agiografia che non tiene


Nel suo ultimo romanzo, ambientato nella Monaco del 1931, Massimi conduce una serrata indagine sulla verità dei fatti e sulle strategie che sempre ognuno mette in atto per raccontarsi le cose del mondo.


Preambolo


Il nostro intelletto tende per sua natura

assai più a voler comprendere che a voler sapere [1].


Ognuno di noi, più o meno coscientemente, impara presto a usare e poi a perfezionare quella strategia che mi piace definire ecologia narrativa della memoria. Per sopravvivere ci raccontiamo delle storie, continuamente, con lo scopo di trovare un qualche senso nel marasma di fatti che ci capitano, a cui assistiamo, di cui abbiamo notizia. Selezioniamo, astraiamo, colleghiamo, definiamo rapporti cronologici, causali, finali e così via. Troviamo colpevoli, assolviamo, perdoniamo, condanniamo, immoliamo o salviamo, creiamo il cerchio del sacro e ne teniamo fuori gli stranieri, i rivali, i profani. Siamo ora eroi positivi ora malefici protagonisti di subdole trame cospiratorie. Spesso, gli altri complottano a nostro danno. Interpretiamo i fatti remoti in modo che siano coerenti con quelli vicini che dobbiamo spiegare. È un’operazione necessaria e crudele, capace di eliminare da queste narrazioni intere porzioni di realtà, intesa come eventi successi, parole pronunciate e ascoltate, azioni compiute.


Si potrebbe definire anche romanzo personale. Ci facciamo un’idea delle cose, per dire così, le mettiamo giù come racconto e ci congediamo dall’impegno di scendere negli inferi della loro essenza.


L’esperimento interessante – niente di nuovo, sia chiaro - allora è quello di raccogliere diverse storie che parlino di uno stesso evento, o di una stessa persona, e confrontarle per vedere cosa ne esce. È possibile trovare un’area di intersezione comune? Se sì, è lecito definire questa zona comune come “la verità delle cose” la “verità dei fatti”? Tra le varie interpretazioni c’è un punto comune che tiene al dubbio che tutto sia evanescente, che le parole raccolte rimandino a una realtà inesistita, scivolata tra un significante e l’altro?


L’angelo di Monaco, romanzo di Fabiano Massimi appena pubblicato da Longanesi, trattiene all’interno delle vicende narrate, come cuore pulsante della intenzione narrativa, una ricerca di questo genere.


Di che si tratta


Il romanzo ruota attorno alla figura di Angelika (Geli) Raubal, nipote di sangue di Adolf Hitler, ritrovata cadavere il 18 settembre 1931 nell'appartamento di Prinzregentenplatz, che condivideva con lo zio. La Storia ci consegna un’inchiesta rapidissima e un’archiviazione del fatto come suicidio. Motivi non chiari, allusioni, ipotesi. Nel romanzo, che copre un tempo di una settimana circa, le indagini vengono affidate al commissario criminale della polizia di Monaco Sigfried Sauer, e al commissario aggiunto della sezione Crimini violenti Helmut Forster, detto Mutti. Tra i due, oltre a quello professionale, esiste uno stretto legame d’amicizia, solida come spesso accade quando due persone riescono a fondarla sulla generale e incolmabile distanza che le separa. Sauer e Mutti sono due opposti ai quali viene messa in mano un’inchiesta tanto semplice all’apparenza, quanto complicata da svolgere stante una complessa trama di pressioni di varia origine che i due fin da subito sono costretti a subire. Tanti sembrano ben presto gli interessi in gioco, e quello dello svelamento della verità non è che uno tra i tanti.

Nella Monaco resa festosa dall’Oktoberfest, Sauer e Mutti conducono un’indagine che li porta a contatto, oltre che con il futuro Cancelliere del Reich, con i vari componenti di quello che è stato opportunamente definito Cerchio magico nazista e con altri personaggi di rilievo che gravitavano attorno a Hitler al tempo, talora restando defilati, talvolta indirizzandone azioni e pensieri.

L’investigazione sarà per i due colleghi anche un viaggio nella propria storia, e mostrerà in più occasioni come il vero giaccia là dove meno si guarda.


L’angelo di Monaco appartiene a due generi letterari: è assieme romanzo storico e poliziesco. Del primo rispetta l’innesto di elementi di fantasia in un contesto storico ben definito e documentato; del secondo, usa la struttura del classico romanzo di detection: si inizia con lo scoprimento di un crimine e, attraverso una investigazione che procede per interrogatori, valutazione di indizi, svelamento di false tracce, si termina con la ricostruzione dei fatti che hanno portato al crimine e, eventualmente, alla incriminazione dei colpevoli.

A un primo livello di lettura, mantenendo lo sguardo stretto alla trama, si può affermare i due generi consentono all’autore un duplice risultato.


Attraverso la componente storica, Massimi può esplorare un fatto rimasto poco noto e narrativamente molto interessante; inoltre, tratteggiando con sapienza il clima dell’epoca, la diffusa incertezza politica, la condizione di generico smarrimento del popolo (elettore), può costruire una serie di rimandi alla situazione nostra contemporanea che, pur visibili solo in filigrana, non sono perciò meno evidenti.


Attraverso la struttura della crime-story, l’autore avanza una propria ipotesi su come possano essere andati i fatti che si discosta dalla vulgata, piuttosto lacunosa. L’indagine allora è lo strumento di rinvenimento, non già o non soltanto di una verità finale, ma di tutte le pietre d’inciampo disseminate lungo la strada, che suggeriscono una ulteriore e nascosta trama di potere in opera.

C’è di più. Approfondendo l’analisi a un livello più profondo, le due componenti di genere collaborano per permettere a Massimi di esplorare quella riflessione a cui accennavo sopra, nel preambolo.


La detection e l’apparire del vero

Sauer risentì la voce di Goebbels mentre gli parlava della bellezza di Geli. Una donna fuori dal comune, aveva detto. Come la sfinge del Belvedere. […] Pensava di doverla cercare tra le mille decorazioni del palazzo, e invece la trovò subito appena entrato nel giardino: era la prima statua che accoglieva i visitatori, una leonessa di pietra alta quanto Sauer, con ali d’angelo sotto un volto beffardo e il seno nudo esibito con spavalderia. Il commissario rimase interdetto. Poteva assomigliare a Geli quella sfacciata chimera? […] Poi Sauer si voltò verso l’angolo opposto del giardino e capì il proprio errore: laggiù, a un centinaio di metri di distanza, c’era un’altra sfinge. Questa non era l’unica. […]Dietro quella seconda sfinge, distanziata di una trentina di metri, ce n’era un’altra, e dopo di quella, ad altri trenta metri, una quarta, e così via, su entrambi i lati del giardino, risalendo a intervalli identici per tutta la collina e fino al palazzo. Sedici sfingi, tutte leggermente diverse nella postura, alcune con le ali e altre senza, alcune ritte sulle zampe e altre accucciate, nessuna con il viso uguale a un’altra. Allora Sauer capì quanta verità contenesse il complimento di Adolf Hitler: Geli era davvero come la sfinge del Belvedere, un animale fantastico che non aveva un volto solo, ma innumerevoli, e che invece di svelare il suo mistero lo moltiplicava, offrendo a ogni osservatore un simulacro muto con forme sempre diverse. A nulla sarebbe servito confrontare tra loro le sedici copie nel giardino del Belvedere. A nulla avrebbe portato raccogliere insieme tutti i segni e interpretarli.
L’originale ormai era perduto.
La verità sarebbe rimasta senza voce.

Durante l’investigazione, seguendo il più consolidato dei metodi d’indagine, i due sodali cercano di capire di più di Geli, attraverso numerosi interrogatori. Geli, pur assente, grazie ai ritratti che di lei i vari altri personaggi forniscono, è tuttavia in grado di dominare la scena, mettendo in ombra chiunque altro. Narrativamente vale più di chiunque altro. Questo è il merito più grande del romanzo e è indubbio che sia propria la struttura poliziesca, e quindi di nuovo l’investigazione, a renderlo possibile. Solo attraverso un’indagine che vuole chiarire un mistero è possibile attraversare le mille sfumature che passano dal buio alla luce, illuminando ora un tratto ora un altro, restituendo a poco a poco un ritratto dinamico credibile di una persona che non esiste più, che anche nella morte riesce a scappare, a nascondersi.

Distante dalla maschera funebre che assume, come chiunque prima o poi è destinato a fare, Geli vive delle molte espressioni che di lei ricordano i suoi vicini, gli amici, pochi, i nemici, molti. Oltre la fissità della morte, Geli non si lascia fermare da una definizione, non si lascia conoscere né comprendere, sta sempre un passo più in là di ogni parola conclusiva sul suo conto. Geli è il resoconto di una molteplicità di opinioni parziali, non false, non vere.


Il romanzo storico o dell’apoteosi


La nostra epoca ci ha abituati all’invasione mediatica del politico. Di più, ci ha reso familiare il politico, grazie a quella commistione tra aspetto pubblico e aspetto privato che è diventata comune e che il dominio che i social network agiscono sulle nostre vite ha esacerbato, tanto che il ruolo istituzionale si disperde, si atomizza in pulviscoli insignificanti rispetto alle immagini, ai video, agli slogan che hanno a che fare con la realtà quotidiana del politico. Ciò che noi, qui e ora, sappiamo e viviamo, nasce allora. Nel 1933, dopo aver preso il potere, Hitler costituì il Ministero dell’Educazione Pubblica e della Propaganda del Reich, guidato da Joseph Goebbels, col compito di diffondere il messaggio nazista attraverso le arti, la musica, il teatro, il cinema, la radio, materiali pedagogici, e la stampa.


Il personaggio Hitler tratteggiato da Massimi è al centro di una complessa azione mediatica, che lo vede sia parte attiva – è indubbio che anche nel romanzo traspaia la capacità oratoria e di suggestione agita nei confronti dell’ascoltatore; sia parte passiva, soggetto a continue pressioni da parte dei collaboratori. La morte di Geli getta Hitler in uno stato di profonda prostrazione e dolore, ed è questa inedita umanità a emergere prepotentemente dalle pagine del romanzo, che deve essere tenuta nascosta, segreta, inaudita. Di converso dunque i collaboratori agiscono per costruire o confermare l’immagine del capo che deve essere comunicata all’esterno: gli scrivono i discorsi da dire, decidono dove deve vivere e chi deve frequentare, allestiscono una parata funebre a uso e consumo della stampa e così via. Hitler è un politico che deve dare un’immagine di sé in cui l’aspetto istituzionale e quello privato concorrono a fornire un messaggio coerente. Tra tutti, spicca il personaggio di Heinrich Hoffmann, nazista della primissima ora, fotografo ufficiale di Hitler; la sua attività non si limitava a quella di un reporter chiamato a documentare; di più, le sue foto erano parte preponderante della macchina propagandistica già in attività e destinata solo ad accrescersi. Il culto dell’eroe passa attraverso la costruzione della sua immagine che, come detto, dev’essere coerente e perciò univoca.


Ecco dove si situa il punto nevralgico di unione e tensione tra il contributo portato dal genere storico e da quello poliziesco. Da un lato, un personaggio storico fisso, creato da un gruppo di lavoro per apparire sempre uguale a se stesso, indomito e privo di imperfezioni, una sorta di essere supremo, divino. La Storia di Hitler è il racconto della sua apoteosi. Dall’altro, un personaggio sfuggente, complesso, che assume tratti diversi a seconda di chi è chiamato a ricordarlo. Geli è una e centomila e se non fosse per questo romanzo, sarebbe sempre più nessuna. Hitler e Geli, pur in modo diverso e con motivazioni opposte, sono il frutto di una falsificazione.


Epilogo


“33 Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?» 34 Gesù gli rispose: «Dici questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?» 35 Pilato gli rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani; che cosa hai fatto?» 36 Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui». 37 Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce».
38 Pilato gli disse: «Che cos'è verità?»
E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo colpa in lui”[2].

Devo dire anche che nell’intero Nuovo Testamento compare solamente un’unica figura che può essere stimata? Pilato, il governatore romano. […] Il nobile scherno di un romano, davanti al quale si sta compiendo un abuso svergognato della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia valore, – che è la sua critica, il suo stesso annientamento: “Che cos’è la verità!”…[3]

Fabiano Massimi scrive un bel romanzo andando a ripescare, tra i molti enormi del più terribile periodo della storia del Novecento, un fatto rimasto ai margini, per un incredibile disinteresse certo storico, ma ancor più narrativo. Sfruttando le potenzialità di questa storia, in qualche modo pronta e in attesa di qualcuno capace di raccontarla, l’autore riesce a costruire un testo che si presta a lettura diverse e che nel suo fondo nasconde una pulsione che è assieme della comprensione e della conoscenza, riuscendo a non cedere mai – e parlando di simili personaggi la tentazione dev’essere stata forte – alla distinzione netta tra male e bene, tra zone nere e zone bianche. Il romanzo ci consegna un’interpretazione plausibile dei fatti, racconta come le cose potrebbero essere andate, rinviene cause, spartisce le responsabilità, trova i moventi. Non arriva alle condanne, perché in fondo quelle appartengono a chi è chiamato a scegliere, tra le tante, la verità da consacrare. E non è il compito di un romanzo.


Ah, già. La verità. Il tuo grande feticcio. Ma esiste davvero, Siggi? Con tutto quello che hai visto e sentito in questi giorni, ci credi ancora? Avanti, dimmelo: che cos’è la verità?

[1] Marc Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1978, p. 28


[2] Giovanni, 18, 33-38, Nuova Riveduta


[3] Friedrich W. Nietzsche, L’Anticristo, trad. di Susanna Mati, Feltrinelli, Milano 2018, p. 65

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