Un vecchio adagio (leggasi: un anziano che parlava lentamente) un giorno mi avvisò: non avrai mai una seconda occasione di fare la prima impressione. Ed è vero.
I guru del Public speaking lo ripetono a ogni piè sospinto: i primi trenta secondi sono fondamentali per far capire al tuo pubblico (audience) chi sei e quanto vali, e per guadagnare la loro attenzione. Perderli per schiarirsi la voce, bere acqua da una bottiglietta di plastica facendo rotolare a terra il tappo, chiedere se la voce arriva ovunque chiara o battere con due dita sul microfono non è un buon modo di occupare quei secondi.
Durante gli anni dell’università lavoravo di sera come bidello in una palestra scolastica, dove si allenavano alcune squadre di pallacanestro e pallavolo. Poco distante c’era un’altra palestra, di un’altra scuola, con un altro bidello, col quale ho fatto amicizia. Di qualche anno più vecchio, grandissimo esperto di cinema (laddove io molto capreggiavo) e di musica (idem). Abbiamo speso molte ore parlando di letteratura, e molte altre lui parlando e io ascoltando di musica e cinema. E spesso mi confessava di invidiare la mia condizione, il poter fare per la prima volta esperienza di molte grande opere d’arte che non conoscevo. Invidiava la mia verginità musicale e cinematografica, la tabula rasa (o quasi) che ero, il fatto di poter guardare e ascoltare senza essere del tutto privo di strumenti per farlo e per apprezzare le opere.
I film e gli album che mi consigliavano potevano fare una buona prima impressione in me, anche perché ero un po’ preparato (da lui e da quello che già avevo studiato).
L’altra sera ho guardato Yesterday, film del 2019 nel quale si narra la scomparsa nella memoria collettiva dei Beatles e delle loro canzoni, con l'eccezione di un giovane e sfortunato cantautore inglese di nome Jack Malik il quale, compresa la faccenda, si mette a proporre le canzoni dei Beatles come proprie e ottiene un successo planetario. Essendo spariti dalla memoria umana, i Beatles e le loro canzoni non sono presenti nemmeno nel sancta sanctorum di ogni sapere, Google, e dunque il giovane Malik deve penare non poca fatica a ricostruire i testi originali. Addirittura, quando ormai sta sfondando nella Los Angeles dove tutto si decide per una pop star, per superare un blocco – del rammemoratore, più che dello scrittore – fa un viaggio a Liverpool a rivedere i luoghi di alcuni pezzi storici (Strawberry Fields, il cimitero dove si trova la tomba di Eleanor Rigby, Penny Lane).
Tra le molte, una cosa interessante del film è la tesi secondo cui anche a distanza di un paio di generazioni da quando apparvero realmente, le canzoni dei Fab Four avrebbero ottenuto un successo parimenti ubiquitario, trasformando il loro autore in mito. La nostra epoca, certo più social e globalizzata, non farebbe che rendere tutto più veloce, in questo per altro già avvantaggiata dal fatto che Malik (ri)scrive e canta in pochi mesi quello che i Beatles hanno prodotto in circa dieci anni.
Altrettanto centrale è l’effetto di cui parlavo all’inizio; quando Malik ancora non ha compreso che il black-out planetario elettrico ha prodotto anche una amnesia Beatles-focused imbraccia la chitarra che gli hanno appena regalato per cantare a un gruppetto di amici una canzone, e sceglie Yesterday perché “a great guitar requires a great song”. E La reazione dei presenti va da un compiaciuto sostegno a una commozione estasiata che fa esplodere in un: “what the hell was that?”.
Nel film la possibilità di una nuova prima volta in cui ascoltare i Beatles è resa molto bene, in questa scena come in tante altre. Ma c’è da fare una precisazione: il mio amico mi invidiava perché, ad esempio, avrei ascoltato per la prima volta il White album, eppure io alcune canzoni già la avevo sentite, magari perché passate in radio o addirittura perché usate come colonna sonora di una pubblicità o ancora perché il ritornello si era staccato dalla canzone ed era diventato quasi uno slogan, un motto (penso, ad esempio, a Ob-La-Di, Ob-La-Da). La mia prima volta, insomma, spesso si inseriva in un contesto sociale e culturale che dipendeva, come ancora è, da quelle opere le quali avevano contribuito a plasmarlo e a dargli senso e direzione. Nel film l’ipotesi è radicale e l’avvento delle canzoni dei Beatles è un’improvvisa e salvifica epifania. Non manca tuttavia un ammiccamento al destino più plausibile cui andrebbero incontro: fagocitate nell’ipervelocità del moderno e subito trasformate in prodotto di consumo e vittime del caravanserraglio degli esperti del marketing, capaci di bocciare i titoli e le copertine suggeriti da Malik per gli album (Abbey Road, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, The White Album).
Ultima nota: assieme ai Beatles, Malik scopre che il black-out si è portato via alcune altre cose: gli Oasis (ça va sans dire), le sigarette, Harry Potter e la Coca-Cola, che ha lasciato il trono alla Pepsi. Chissà se nel mondo immaginato da Danny Boyle, il viandante che mi ha preceduto nei boschi alpini sarebbe stato una persona diversa.
In ogni caso:
He wear no shoe shine
He got toe jam football
He got monkey finger
He shoot Coca-Cola
He say I know you, you know me
One thing I can tell you is you got to be free
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