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L’EFFETTO DELLO SPETTATORE. UNA GITA TRA FOSSI, PECORE E MONTONI



Prologo

Mia madre, quand’ero piccolo e poi poco oltre, aveva tra i suoi vari e sempre pronti, un modo di dire: se un tuo amico si butta dentro al fosso, ci vai dietro?

Stava a dire, chiaramente, che non vale a niente come giustificazione di un’azione riprovevole o pericolosa l’averla fatta assieme a un altro; né portare il fatto che altri prima l’abbiano fatta a proprio favore. Il che, ancora, significava che ci vuole un codice proprio di condotta, da seguire perché valido, anche a prescindere da ciò che accade attorno. Un calvinista direbbe: soprattutto a prescindere da ciò che accade attorno.


In questione, dunque, è il fare una cosa perché la fa qualcun altro; o fare una cosa ritenendolo giusta perché la fa qualcun altro. La differenza c’è, il risultato non cambia.

Ma se dovessimo pensare al contrario? Se questo vale in positivo, vale a dire nell’ambito di ciò che si fa, varrà anche in negativo, quando cioè si evita di fare qualcosa perché nessun altro agisce?

 

A woman called Kitty – A man called Otto

In psicologia sociale c’è un interessante fenomeno che viene denominato bystander effect (o effetto dello spettatore), e si riferisce alla scoperta che più persone sono presenti quando è necessario aiuto, meno è probabile che qualcuno di loro fornisca assistenza; lo spettatore viene preso da una sorta di apatia e disinteresse. Non è sempre facile rintracciare le origini di una teoria, ma in questo caso sono disponibili e noti i fatti che hanno stimolato le ricerche coronate dalla formulazione di cui sopra[1]: l’anno è il 1964, il luogo è il Queens (NYC) e l’evento è il brutale assassinio di una donna italoamericana, Catherine Susan Genovese (Kitty) accoltellata da un ventinovenne afroamericano di nome Winston Moseley. Erano le 3.30 della mattina del 13 Marzo.


Secondo la confessione rilasciata alla polizia, Moseley avrebbe visto la donna entrare nel parcheggio della stazione della Long Island Rail Road in Austin Street, dove viveva in un appartamento al secondo piano, e parcheggiare l'auto. Avrebbe dunque fermato a sua volta l'auto, parcheggiandola alla fermata dell'autobus accanto al parcheggio. Kitty lo vide, fermo vicino all’auto a fissarlo, chiuse la propria e scappò, dirigendosi lungo Austin Street verso Lefferts Boulevard.

Moseley la raggiunse e la pugnalò due volte alla schiena. Le grida della donna hanno allertato almeno un vicino, in un appartamento dall’altra parte della strada, che ha aperto la finestra e gridato a Moseley di andarsene. Sempre secondo la confessione di Moseley, anche le luci di altri appartamenti si sono accese, spingendolo a scappare verso la sua automobile.

Dopo aver spostato l’auto, temendo che la luce del lampione rendesse visibile e memorizzabile la targa, Moseley rimase in macchina e attese. Dopo dieci minuti, non vedendo nessuno avvicinarsi, passò da un cappello lavorato a maglia a un cappello di feltro per travestirsi e tornò ad Austin Street per cercare Genovese. La donna si era nel frattempo rialzata e diretta verso il suo condominio, che si affacciava sul passaggio pedonale vicino ai binari della ferrovia, sul lato opposto del parcheggio. Stava sanguinando, ma riuscì ad aprire la porta del primo appartamento a poche porte di distanza dal suo, dove crollò. Nel frattempo, Moseley l'aveva cercata all'interno dell'edificio della stazione ferroviaria, e poi aveva risalito il camminamento accanto ai binari, provando le porte degli appartamenti. Infine la trovò nell'atrio al 82-62 di Austin Street. Kitty lo vide e gridò di nuovo. L'ha pugnalata alla gola per farla stare zitta e poi ha continuato a pugnalarla ripetutamente al petto e allo stomaco. Ha detto alla polizia che pensava di aver sentito e intravisto qualcuno in cima alle scale che apriva la porta, ma quando ha alzato lo sguardo non ha visto nessuno. Moseley cercò anche, invano, di violentarla e se ne andò portando con sé alcuni oggetti trovati nella borsa. Dopo qualche minuto una vicina, allertata al telefono da un altro, accorse per aiutare la donna. Chiamò l’ambulanza e la rivestì. Kitty morì nel tragitto verso l’ospedale.

Questi i fatti, quasi tutti dovuti alla ricostruzione di Moseley rilasciata alla polizia, nel quale frangente si assunse anche la responsabilità di altri due omicidi nel corso dell’anno precedente.


L’omicidio ottenne risalto nella stampa locale, ma imitato interesse da quella nazionale. Fu solo a due settimane di distanza che accadde qualcosa di significativo. Il New York Times riprese il fatto e ne fece un articolo addirittura da prima pagina, ad opera di Martin Gansberg, che titolava:

 

37 Who saw Murder Didn’t Call the Police

Apathy at Stabbing of Queens Woman Shocks Inspector.

 

Nell’articolo si afferma che 38 rispettabili cittadini (quindi in un brevissimo lasso di tempo l’articolista ne ha scovato un altro) non hanno fatto niente e si sono limitati a guardare un uomo aggredire e accoltellare una donna in tre differenti attacchi in meno di mezz’ora.

È da questo momento che la storia divenne virale. Eppure non fu, come ci si aspetterebbe, il crimine in sé, né la storia di Kitty Genovese o quella di Winston Moseley, a calamitare l’attenzione; fu piuttosto l’apatia dei vicini, la mancata reazione di soccorso, il disinteresse, l’apatia di un quartiere usato come simbolo dell’apatia di una città come New York.


Come sostiene Marcy M. Gallo[2], professore associato di Storia all’università del Nevada, nel suo libro No One Helped": Kitty Genovese, New York City, and the Myth of Urban Apathy (Cornell University Press, 2015, di cui qui si può leggere un estratto in inglese) è da questo momento che inizia il mito e la fortuna del cosiddetto bystander effect. Perché mito? Perché nella sostanza questi 38 testimoni non esistono, sono una creazione narrativa voluta dal nuovo direttore del giornale (il premio Pulitzer A. M. Rosenthal) interessato a fornire un ritratto della città e dei suoi abitanti che si accordasse con una sua personale idea della realtà, che non teneva conto della molteplicità di attività, campagne sociali, aggregazioni attivistiche, erano in realtà in corso da alcuni anni.


Bill Genovese, il fratello di Kitty (a sua volta soldato in Vietnam, dove ha perso le gambe), ha realizzato un docufilm di inchiesta e grazie alle indagini scopre che la storia originale del New York Times era stata notevolmente abbellita nel tentativo di rendere la storia più sensazionale. Il numero dei testimoni del delitto era enormemente esagerato e classificarli come “testimoni oculari” era categoricamente errato[3].


Il fatto esclusivamente narrativo, finzionale, che 38 testimoni avessero ignorato il crimine a cui stavano assistendo prese vita propria da quel momento, colpì la coscienza nazionale e diede inizio a numerosi studi accademici, inchieste, nonché a rielaborazioni artistiche come film, romanzi, fumetti. La storia di Kitty, slegata ormai dai dati reali, assunse i toni di una parabola la cui morale era l’insensibilità urbana, il solipsismo, l’egoismo dei cittadini contemporanei. È questo il nocciolo dell’effetto dello spettatore, chiamato anche Kitty Genovese syndrome: la diffusione della responsabilità.

A seguito di questo clamore si iniziò a delineare la struttura del sistema unificato dei servizi di emergenza che entrò in funzione nel 1968 e che tutti conosciamo attraverso i film e le serie tv: il 911.




  Non così vicino (titolo originale: A man called Otto) è un film del 2023, con la regia di Marc Foster e che ha come protagonista un burbero e misurato Tom Hanks. Rimasto da poco vedovo, incattivito col mondo e duro con chi non rispetta i regolamenti, decide di suicidarsi. Invano, perché i tentativi vengono frustrati da vari e a tratti ironici, avvenimenti.

Viene in mente la sferzante Dorothy Parker:

 

Resumé

Razors pain you;

Rivers are damp;

Acids stain you;

And drugs cause cramp.

Guns aren’t lawful;

Nooses give;

Gas smells awful;

You might as well live[4].

 

Uno dei tentativi che Otto mette in atto per suicidarsi è quello di buttarsi sotto al treno, dalla affollata banchina della stazione. L’azione viene impedita dal fatto che un anziano signore ha un malore e cade in mezzo ai binari. Otto è l’unico che si decide a scendere e salvare l’uomo a terra e privo di sensi, mentre decine di persone lì attorno rimangono a guardare o, peggio, estraggono i cellulari per riprendere la scena e trasmetterla in diretta social. Con la conseguenza, così comune oggidì, che l’accadimento reale diventa, nel mondo social, prima reel e poi virale.

 

Redde rationem

Il caso di Kitty Genovese è interessante per due motivi. Da un lato, per l’efficacia della narrazione che determina nel lettore una diversa percezione della realtà, portandolo a credere che quanto è scritto sia accaduto davvero: il caso di Kitty è diventato, dal punto di vista retorico, un’antonomasia. Dall’altro lato perché, nonostante la narrazione sia finta (errata, esagerata, falsa: si può discutere sul tenore della distanza dal vero), ciò che rappresenta non lo è, né lo è quello che viene rappresentato nella scena del film con Tom Hanks. Si potrà dire che quanto il film si limita a registrare, a documentare (uno stato di cose, un dato di fatto), l’articolo di giornale ha contribuito a rendere evidente, in un ceto senso creandolo. Si potrebbe dire che è stato simile a quanto Freud ha fatto con l’inconscio.

Un’invenzione che è non creazione ex nihilo, ma inventio nel senso dell’arte oratoria, ritrovamento.


Nelle conclusioni del loro articolo, Darley e Latané scrivono che spesso si cerca di spiegare il non intervento da parte di chi assiste a un crimine, ricorrendo a caratteristiche della singola personalità (alienazione, machiavellismo, indifferenza…); in questo modo da un lato queste spiegazioni motivano il problema di chi rimane a guardare gli altri morire, dall’altro impediscono di credere che anche noi faremmo lo stesso. Eppure, i due studiosi dicono che questa “apatia” dello spettatore ha molto più a che fare con la risposta che ognuno dà alla non-azione di chi è presente, in qualche modo emulandolo.

 

Conclusione

Come scrisse l’editorialista Nicholas Goldberg nel Los Angeles Times in un articolo del 10 Settembre 2020, che ritorna sui fatti a brevissima distanza dalla morte di Sophia Farrar, la donna che allora soccorse l’agonizzante Kitty:

 

Some stories become part of the zeitgeist because they seem to encapsulate some elusive truth or tell us something fundamental about human beings. 

Questo è vero. Da un lato la potenza emotiva e immaginifica di un evento, dall’altro la patina scientifica delle teorie che vengono, con maggiore o minore cognizione a seconda di chi se ne occupa, richiamate o elaborate ex novo, sono elementi che concorrono a rendere una storia accettabile, accettata, significante e significativa.

 

Non siamo per natura non interventisti, questo il risultato dell’articolo dei due psicologi e il non fare nulla quando si potrebbe invece agire, è il fosso di cui parlava mia madre, il cui modo di dire portava, dopo secoli, le vestigia di una famosa scena letteraria anch’essa divenuta presto motto proverbiale: i montoni di Panurge[5].


Nel capitolo VIII del libro IV di Gargantua e Pantagruele, Panurge, durante una traversata in mare, viene insultato dal mercante di montoni Dindenault; dopo lunga contrattazione acquista un montone e subito lo getta in acqua:



Subitamente, e non saprei dir come perché tutto successe in un battibaleno e io non ebbi il tempo di rendermene conto, Panurge, senza una parola di più, scaraventa in mare il suo montone urlante e belante. Tutte le altre pecore, montoni in testa, urlando e belando sullo stesso tono, cominciano a gettarglisi dietro, saltando in mare una dopo l’altra; perché, come sapete e come dice anche Aristotele (Lib. 9, De Histor. animal.) questo animale è il più stupido e il più inetto del mondo, ed è proprio della natura delle pecore seguire la prima ovunque vada. Così facevan ressa e spingevano a testa bassa per essere le prime a seguire il compagno. Il mercante, preso dal panico nel veder le sue pecore morire annegate così sotto i suoi occhi, faceva di tutto per frenarle e trattenerle, ma inutilmente. Tutte, una dopo l’altra, si buttavano giù. Alla fine agguantò per il pelo uno dei montoni più grossi sull’orlo della tolda, sperando di tirarlo indietro e salvare così tutto il resto del gregge. Ma il montone fu abbastanza forte per portare il mercante con sé; come i montoni di Polifemo, il Ciclope accecato nel sonno, quando portarono in salvo, fuor della grotta, Ulisse e i suoi compagni. E montone e mercante affogarono insieme. Anche i pecorai che, sull’esempio del mercante, s’aggrappavano alle bestie, chi per le corna, chi per i piedi, chi per il mantello, furono tutti travolti allo stesso modo e affogarono in mare miseramente.

[Trad. di Augusto Frassineti]


[1] Furono due psicologi sociali, John Darley della New York University e Bibb Latané della Columbia University, a impegnarsi in alcuni esperimenti laboratoriali che portarono alla formulazione dell’effetto spettatore in un articolo uscito nel 1968 nel Journal of Personality and Social Psychology, che potete leggere qui: http://www.communicationcache.com/uploads/1/0/8/8/10887248/bystander_intervention_in_emergencies_diffusion_of_responsibility.pdf

[2] L’estratto si trova a questo indirizzo: https://www.gothamcenter.org/blog/a-new-york-story-kitty-genovese. Da questo testo ho ricavato anche la cronaca dei fatti.

[4] I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l'acido macchia; i farmaci danno i crampi. Le pistole sono illegali; i cappi cedono; il gas fa schifo. Tanto vale vivere, nella traduzione di Marisa Ciaramella. La poesia è declamata da Angelina Jolie, tono monocorde e sigaretta in bocca, nel film Ragazze interrotte (1999).

[5] Rabelais riprende la scena dal Baldus di Teofilo Folengo, in arte Merlin Cocai. Potete leggerla qui: https://www.palumboeditore.it/portals/0/webooks/lsi/v2/LSI_V2_On_LINE_T41.pdf

 

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