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Le parole sono pietre. Fedra e Ippolito nella tragedia di Euripide


Racchiudo dentro di me la speranza di comprendere,

ma se guardo alle sorti e alle azioni dei mortali ci rinuncio:

tutto si tramuta in qualcosa d’altro,

e cambia sempre la vita moltoerrante degli umani[1].


Nell’Ippolito coronato di Euripide, viene rappresentata la tragedia di Fedra e Ippolito, rispettivamente moglie e figlio dell’eroe attico Teseo.

La tragedia contiene alcune riflessioni di innegabile modernità su temi quali il potere delle parole nei negozi umani, il rapporto tra libertà e destino, la forza della passione amorosa, i concetti dell’onore e dell’infamia, la conoscenza del bene e del male. Un’opera centrale nella poetica di Euripide, che non smette di affascinare i lettori.





TESEO:
ÉA ÉA / Che cos’è questa tavoletta che ha in mano? / Vorrà informarmi di qualcosa che non conosco? / Oppure la poveretta mi ha scritto una lettera / di sposa e di madre, con qualche richiesta? […] / Il marchio che la morta ha impresso sul castone d’oro attira il mio sguardo: / scioglierò i lacci del sigillo / per vedere che cosa ha da dirmi questa lettera.

Nell’Ippolito (coronato) Euripide narra del suicidio di Fedra, che preferisce la morte violenta al disonore per l’amore incestuoso che prova nei confronti del figliastro Ippolito. Lascia tuttavia una lettera al marito Teseo, un messaggio inciso su una tavoletta d’argilla, che Teseo legge quando, tornando a casa da un pellegrinaggio silvano, scopre l’orrendo evento. La cosa è interessante per due motivi: il primo, storico, perché racconta una delle prime testimonianze di lettura silenziosa (qui un approfondimento); Teseo legge tra sé il messaggio della sposa e trattiene il contenuto dello stesso fino a che il dolore non è troppo grande per tacere:


Non la serrerò più sulla soglia della mia bocca, / questa sciagura invalicabile, esiziale.

Il secondo, perché il contenuto di quello che Fedra consegna in eredità al marito è una bugia, che scatenerà l’ira dell’eroe attico nei confronti del figlio.

Fedra, quando ancora stava lottando con il tormento scatenato dalla passione che avrebbe potuto scatenare azioni infami e quindi il disonore, aveva individuato come causa di rovina per le città ben governate dai mortali l’arte retorica (i discorsi troppo belli):


Non si deve dire ciò che risulta gradevole agli orecchi, / ma ciò che dà buona fama.

In questo si scontra con la nutrice, che afferma al contrario:


meglio un’azione che ti salvi la vita, / di un buon nome di cui potrai vantarti da morta.

Da queste posizioni teoriche discendono azioni precise. La nutrice cerca di salvare la padrona tradendola e raccontando la sua passione a Ippolito. D’altra parte, è per prevenire la possibilità che i bei discorsi coprano l’infamia delle azioni che Fedra decide di uccidersi.


Adesso che sono caduta in rovina / di quali mezzi, di quali parole dispongo / per sciogliere il nodo in cui mi hanno intrappolata le parole?

La tragedia di Euripide, fortemente connotata in termini misogini, è incentrata sul rapporto tra dire/nascondere e sapere/ignorare, attraverso l’uso, il disuso e l’abuso delle parole, che sono lo strumento umano di comunicazione e di attivazione all’agire, ma che sono contemporaneamente la più viva dimostrazione dell’inefficacia dei progetti umani di fronte alla volontà degli dèi, capaci di usare a loro piacimento i mortali, come pedine nel loro infinito e non sempre perspicuo piano di gioco.

Lo dice chiaramente Afrodite all’inizio della tragedia (e lo ripeterà Artemide in chiusura):


E Fedra conserverà il suo onore, ma morirà: / non posso preoccuparmi della sua brutta fine, / tanto da privarmi del piacere / di far pagare ai miei nemici l’offesa che mi hanno recato.


L’unica vittoria che Fedra può prendersi è pur sempre a questo livello, verbale, perché sono sempre e solo le parole che concedono onori e disonori. Chiede infatti alle donne della città di tacere quanto hanno fino a quel momento udito:


FEDRA
[…] Ci penserò io a risolvere la mia situazione. / E voi, nobili fanciulle di Trezene, esaudite questa mia preghiera: / occultate nel silenzio quello che avete udito qui.
CORO
Giuro in nome di Artemide veneranda, figlia di Zeus, / che non svelerò mai nessuna delle tue disgrazie.

Proprio fidandosi del silenzio di chi sa, Fedra può sperare che il suo gesto – e quindi la presenza oscena del suo corpo morto – riescano ad avvalorare le sue parole false. Ed è così che accade nell’animo del marito Teseo che non esita a credere a ciò che legge e a condannare a morte il figlio.


Ma perché adesso sto a discutere con te, / mentre qui c’è il suo cadavere, testimone che non ammette smentite?

A nulla vale l’eloquenza che, sebbene contro la propria natura, Ippolito usa per difendersi. Teseo ha già deciso a chi/cosa credere e i bei discorsi del figlio – ciarlatano, incantatore – non lo smuovono. Addirittura, Teseo riconosce alle parole incise sulla argilla della tavoletta un valore irrefutabile, che non può essere messo in dubbio nemmeno dai responsi degli indovini.


Questa tavoletta non contiene oracoli, / e ti denuncia senza margini di dubbio: / tanti saluti agli uccelli che volano sopra la nostra testa!

Che sia Fedra, che sia la Nutrice, che sia Ippolito o anche il Coro, il gioco è sempre un movimento tra nascondere e mostrare. L’azione suicida, che libera Fedra dal tormento della passione amorosa, la può consegnare all’eternità con la sua buona reputazione in salvo.

La nutrice, che nella vicenda drammatica gioca un ruolo fondamentale, non potrebbe esprimere più chiaramente questo dato di fatto:


La vita degli umani è tutta dolore, e non c’è tregua agli affanni. / Forse esiste qualcosa d’altro, più desiderabile della vita, / ma la tenebra lo circonda, lo occulta dietro le nuvole. / Amanti mal riamati, così sembriamo, / di questa luce che rifulge sulla terra, / perché di un’altra vita / non abbiamo esperienza / e di ciò che sta sotto la terra non c’è rivelazione: / ci trascinano favole vane.

Un ultimo motivo di interesse, questa volta legato a una considerazione di Fedra, ha a che vedere con l’etica e in particolare con il rapporto tra bene e male nelle azioni umane. Euripide visse e scrisse nel pieno del V secolo a.C., contemporaneo e amico del filosofo Socrate. Quest’ultimo è noto per una posizione etica intellettualistica, secondo la quale l’uomo commette male solo quando e perché ignora il bene. Non è possibile, sapendo quale sia l’azione retta, non compierla.

La modernità di Fedra sta in un’esplicita rivendicazione anti-intellettualistica, come chiarisce in questi versi:


O donne di Trezene / che abitate questa soglia estrema del Peloponneso, / già altre volte nel lungo corso della notte / ho riflettuto su come si rovini la vita dei mortali, / e non mi sembra che sia la natura del loro pensiero a farli sbagliare: / gli uomini assennati sono molti. / Ma la cosa va vista in questo modo: / noi sappiamo ciò che è bene, lo conosciamo, / ma non ci impegniamo a realizzarlo, / alcuni per pigrizia, altri perché all’eccellenza / preferiscono qualche altro piacere. / E i piaceri della vita sono tanti: / le grandi chiacchierate, e l’ozio, / che è un vizio seducente.

Pur sapendo discernere il bene dal male, l’uomo sceglie quest’ultimo perché le passioni sono più forti della conoscenza. La tragedia si chiude su questo aspetto. Dopo che Ippolito è stato ferito a morte dalla potenza del mare, alzato contro di lui da Poseidone invocato da Teseo, Artemide dea della guerra, al cui culto Ippolito si era consacrato, racconta la verità al re ateniese, straziandolo. Artemide non aveva alcuna possibilità di agire prima, perché esiste un patto tra gli dei secondo il quale nessuno interviene nelle azioni di un altro.


In quanto alla tua colpa, / l’ignoranza ti libera dall’accusa di malvagità.

Un’affermazione che sembra rovesciare quella pronunciata da Fedra, anche se in fondo questa ignoranza non è che il frutto del potere incontrastato che le passioni esercitano nell’animo umano. Eros, figlio di Afrodite, ancora una volta omnia vincit.

[1] Tutte le citazioni sono prese da: Euripide, Le tragedie, nuova traduzione e cura di Angelo Tonelli, Marsilio, Venezia 2007

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