Adesso lo sapevo: le cose sono soltanto ciò che paiono – e dietro di esse… non c’è nulla[1].
I
«Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna, con un’entrata spalancata alla luce e larga quanto l’intera caverna; qui stanno fin da bambini, con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di girare la testa; fa loro luce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano; tra il fuoco e i prigionieri passa in alto una strada, e immagina che lungo di essa sia stato costruito un muretto, simile ai parapetti che i burattinai pongono davanti agli uomini che manovrano le marionette mostrandole, sopra di essi, al pubblico.»
«Vedo» disse.
«Vedi allora che dietro questo muretto degli uomini portano, facendoli sporgere dal muro stesso, oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari; com’è naturale alcuni dei portatori parlano, altri tacciono.»
«Strana immagine descrivi» disse, «e strani prigionieri.»
«Simili a noi» dissi io. «Pensi innanzitutto che essi abbiano visto, di se stessi e dei loro compagni, qualcos’altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?»
«E come potrebbero» disse, «se sono costretti per tutta la vita a tenere la testa immobile?[2]»
Così Platone nel libro VII della Repubblica, raccontando un mito che è rimasto nel tempo, immortale. Un’immagine di rara potenza quella che nel passo citato viene definita strana da Glaucone, discepolo di Socrate. In una simile grandiosa allegoria Platone, indignatissimo per la sorte del suo maestro e incapace di far pace con una società corrotta e in grado di ammazzare il giusto tra i giusti, elabora un itinerario figurativo che illustra cosa si deve fare per raggiungere quella sapienza necessaria al filosofo che dovrà ben governare la città: uscire dalla caverna, abituare gli occhi alla luce, guardare il mondo, vedere le cose/idee, tornare a rendere conto e finalmente educare; cioè, etimologicamente, trarre gli altri fuori dall’ignoranza e aiutarli in quel paradosso che ogni conoscenza rappresenta.
L’ignoranza degli uomini è, nel mito, legata al loro essere incatenati. O Meglio, come dice Glaucone, al fatto che sono costretti per tutta la vita a tenere la testa immobile. Ma non è solo questo: essi sono immobilizzati sì, ma tale situazione non è immodificabile. Cioè esiste uno stato di cose coattivo, ma esiste anche la possibilità di scegliere di cambiarlo, come si legge nelle righe successive del mito; è di fronte a questo bivio esiziale che essi rifiuteranno di assecondare le offerte di chi è uscito dalla caverna e torna per liberarli. C’è una componente irriducibile di mĕtŭs[3] che li mantiene intrappolati.
Certo, in questa accidia intellettuale e pratica gioca un certo ruolo l’abitudine, quello stato delle cose di cui dicevo prima e che funge da scenario esistenziale inamovibile. Su di lui insistono le nostre azioni, anche quando esse non sono che fissità e ripetizione. Non basta però a dare conto del gran rifiuto[4]. Esso discende piuttosto dalla specificità dell’incontro con l’Altro, con colui che asceso alla luce ritorna e dice. Non c’è più, in lui, quello che c’era mentre condivideva la condizione con i compagni. I suoi occhi sono cambiati, nel suo sguardo essi non si riconoscono, non si vedono guardati.
Essi tornano alla parete, a quelle che l’Altro riconosce e nomina come ombre, proiettate dai sofisti degenerati, dagli imbonitori, dagli ingannatori, da quanti insomma, pur sapendo la parzialità della loro conoscenza, non smettono di perpetuare la diffusione del falso attraverso un sapere falso. Su questa pratica, su quegli oggetti, i sofisti hanno costruito un dominio tanto capzioso da spingere gli uomini incatenati a gioire del sapere che hanno su ciò che si vedono passare innanzi; ecco perché rifiutano chi viene da fuori, perché può minare il piccolo sapere/potere che essi hanno costruito sulle ombre.
Come dar loro torto?
Essi vedono le ombre; questo fatto è tutto ciò di cui hanno bisogno per sapere e dunque per essere. Chiunque mini questo li atterrisce.
Gli oggetti nel romanzo di Durante sono una presenza costante, che domina e ingombra gli spazi. Dal giardino curato con maniacale dedizione da zia Eleonora, alle stanze della casa, dalle valigie riempite e svuotate, alla cantina tomba delle vite di tre diversi proprietari, ogni ambiente è saturo e l’atmosfera è di claustrofobica angoscia. Su di essi cade l’occhio di Leni che vede e illumina, facendoli emergere dall’inconsistenza generale che deriva dal non avere, gli oggetti, alcun uso cogente, alcun significato, se non quello di essere guardati.
È come avere a che fare con una sorta di tragico mausoleo, in cui la permanenza non è data dalla volontà di ricordare, perpetuare, tracciare; bensì dalla necessità di mantenere visibile un monito che ricorda l'esiguo valore delle cose, separate dall'uso, negate allo sguardo.
[…] oggetti su oggetti. Facevano tutti lo stesso baluginio sommesso quando li illuminavo, come un’incredulità condivisa: qualcuno, ancora, li reputava guardabili. E quel servo muto di legno? Non c’era più amore per lui nel buio: l’amore dello slacciarsi la camicetta, sfilare la gonna, l’amore del togliere indumento per indumento e riporre con cura sulla carne di legno. Non può esserci amore nella dimenticanza, nel non essere visti, visibili ma non visti, dunque non più considerati.
[…]
Quelle sì, quelle erano le nostre cose. Le cose della sua determinazione nell’umiliare. Le cose che rendevano possibile, con la loro presenza presente e però negata, la nostra prigionia in quella casa.
II
Gli occhi stentarono, per il passare brusco dal buio al bianco scorticato del neon. Ma quando successe guardai. E guardando vidi: nella stanza, davanti a me, c’ero io. Era un mio ritratto a olio, quasi a grandezza naturale. Stavo ritta in piedi, le gambe unite, le braccia lungo i fianchi, i palmi a contenere il corpo. Una posa da soldatino. Indossavo una gonna al ginocchio, nera con una stampa di papaveri rossi, e una camicetta bianca con le maniche a sbuffo. Ero scalza e sorridevo. Il quadro mi parve bello per quel che potevo capirne, o almeno: molto somigliante. […] Le pareti erano ingombre di tele […] Mi venne la curiosità di guardare le altre. La tela alla mia sinistra era altrettanto grande. La ruotai. Ero sempre io: stessa posa da soldatino, ma stavolta indossavo un paio di jeans e la maglietta di Lady Oscar. […] Anche qui ero scalza e sorridevo. Non ricordo quante tele guardai quel giorno, ma erano tutti ritratti miei. I vestiti e le età differivano, eppure avevo sempre quella posa impassibile da soldatino. Così ligia al dovere. Più guardavo e più mi chiedevo perché zia Eleonora avesse voluto tenermeli nascosti. Ero talmente perfetta lì…
In L’essere e il nulla (1943) Sartre parla di libertà attraverso la distinzione originaria tra le cose e la coscienza. Le cose e i fenomeni sono quel che sono nella loro massiccia e opaca pienezza, essi esistono in-sé, come pura presenza, realtà bruta e immediata; viceversa, la coscienza in sé è nulla e deve continuamente costruirsi, decidendo cosa essere momento dopo momento, trascendendosi, muovendosi verso fuori (mondo, storia, memoria…); essa è per-sé. La libertà sta tutta qui, nella infinita possibilità di scegliere cosa essere, seppure paradossalmente questa libertà è necessaria (Sartre dice: «l'uomo è condannato alla libertà»). L’uomo è gettato nell’esistenza, che risulta incomprensibile: è lì (“è” come esistenza, non come essenza) e deve fare di sé stesso qualcuno. La libertà è anche responsabilità, laddove ogni posizione valoriale è sì soggettiva, ma allo stesso tempo universale, qualcosa per cui ci si impegna. Non riconoscerlo equivale a essere in malafede.
La coscienza è 1) intenzionalità e 2) auto-coscienza. Il primo carattere è ciò per cui la coscienza è pura rivelazione dell’altro: non mi fa conoscere le cose, ma è pure rivelare le cose (che, ricordiamo, sono pieno essere). Il secondo carattere è ciò che fa la coscienza presente a sé.
Invece la presenza a sé presuppone che una fessura impalpabile si sia infiltrata nell'essere. Se è presente a sé, significa che non è del tutto sé. La presenza è una degradazione immediata della coincidenza, perché presuppone la separazione. […] Questa fessura è quindi il puro negativo. […] Questo negativo, che è nulla d'essere e potere annullatore insieme, è il nulla.
L’esistenza, insomma, è quella imperfezione che manda in rovina l’essere, turbando per sempre la quiete. È questa la colpa fondamentale.
Presi il ritratto con i jeans e la maglietta di Oscar e lo sollevai per rimetterlo contro la parete. Nel fare questo, mi accorsi che sulla tela c’era un taglio: piccolo, di mezzo centimetro al massimo. Non aveva l’aspetto dello strappo accidentale. Guardai meglio e no, quello era un taglio praticato d’intenzione, con un taglierino, una lametta, la punta di forbici sottili. Incideva la tela all’altezza del mio pollice destro, poco sotto l’unghia: un punto appartato, da distante era impossibile accorgersene. Io, prima, non mi ero accorta. Ispezionai anche il primo ritratto, quello in gonna a fiori e camicetta. Lo percorsi dall’alto verso il basso. Percorsi i capelli, il naso, la bocca, il colletto della camicia e tutti i fiori della gonna, petalo dopo petalo. Ma specialmente la pelle: le ginocchia nude, i polpacci nudi, i piedi nudi. Volevo credere che non ci fosse nulla, che non avrei trovato nulla. E invece il taglio c’era, sul lato destro del collo, nella piega di carne fra mento e collo. Era ancora più piccolo del precedente. Quasi impercettibile, eppure evidentissimo. Passai gli altri ritratti: tutti, in qualche punto della tela, erano stati deturpati. Rimisi ogni cosa al suo posto, uscii dalla stanza e riposi la chiave nella bacheca. Per una settimana non dissi nulla.
L’incontro con l’altro è una dimensione fondamentale dell’essere dell’uomo. Esso avviene principalmente attraverso lo sguardo. Con il suo sguardo, l’altro mi limita, fa di me un oggetto. Sotto il dominio dello sguardo altrui io mi sento nel mondo cosa tra le cose. Incontrando lo sguardo altrui, mi accorgo della sua pari trascendenza e cerco di reagire alla limitazione che egli impone alla mia libertà. I modi di questa reazione sono l’amore, il desiderio, il sadismo, il masochismo, l’odio. Sono queste, come estasi temporanee, a puntellare il fallimento di ogni relazione umana che è pur sempre dall’origine vittima del potere nientificante della coscienza.
Pensai a quando la sera mi aiutava a spogliarmi. Mi faceva sostare nuda, in piedi, sul pavimento dell’anticamera. Guardava che tutto fosse conforme nel corpo, che crescessi senza imperfezioni. Mi faceva spingere il petto in fuori e allargare le gambe. “Un po’ di più, Leni, tesoro. Ancora di più. Brava”. Mi faceva aprire la bocca per posarci il sasso. Sentivo il contrasto fra le sue dita calde che spingevano contro i denti e la lingua e il freddo duro del sasso, sotto. Poi cominciava il silenzio: lei si prendeva cura di me. Crescendo ho capito cosa realmente fosse e cosa lei mi facesse, ma in quel momento no. E non potevo parlarne con nessuno. “Tu sai che nessuno capirebbe, perché noi non siamo di qui. Non apparteniamo a questo posto”. In quel momento, per ciò che potevo comprendere, che mi veniva detto, era l’amore. Anche se faceva male, era comunque l’amore. Dovevano essere amore anche tutti quei ritratti: la ripetizione, la minuzia, gli occhi alla me stessa esposta. Quei ritratti erano lì in tutta la loro consistenza. E sorridevano.
Zia Eleonora avvicina Leni attraverso i movimenti del desiderio che si muove per raggiungere un possesso. Chi desidera non attende che l’altro arrivi e si mostri, piuttosto prende, spoglia, brama, possiede; il desiderio non si cura dell’altrui soggettività e dunque tratta l’altro come cosa tra le cose, come carne, come scatola. In questo senso l’altro è ripetibile, riproducibile in una successione di ritratti uguali, la cui differenza – il cui resto – è nelle vesti che il soggetto non ricorda nemmeno di avere, di avere indossato. È una iniziazione al niente quella che zia Eleonora impone a Leni, esponendola al suo sguardo oggettivante, uguale a quello della macchina da presa di quegli spot pubblicitari nei quali, a prescindere dal prodotto, ciò che conta sono le parti corporee e sessualmente interessanti di un corpo femminile non più agente, ma agito. La proibizione finale, nell’allegoria della fuoriuscita da un giardino cintato che assomiglia tanto all’eden biblico quanto allo spiazzo enorme di malebolge, è quella di sottrarsi alla possibilità di essere altro dall’immagine voluta e consolidata dallo sguardo della zia/madre; la proibizione è il divieto di essere l’Altro.
III
Il Male non è spettacolare ed è sempre umano,
e divide il nostro letto e mangia alla nostra mensa[5].
“In giardino ci sono parecchi formicai: ti sei accorta?”
“Non ci ho mai fatto caso”.
“Ne ho contati otto la scorsa primavera”.
“Può darsi”.
“Una mattina presto mi sono fermato davanti a uno di questi formicai. Era il periodo in cui cacciavo le farfalle, ricordi? Esploravo l’erba come se fosse la cosa più importante della mia vita. Da lontano, il formicaio sembrava una semplice montagnola di terra. Avvicinandosi, però, si capiva che il colore era diverso: più chiaro, e più rosso che bruno. Anche la consistenza era diversa”.
“So com’è fatto un formicaio”.
“Sono corso in garage, ho preso la paletta azzurra e l’ho distrutto”.
Portai i palmi alla fronte e stropicciai un poco. Feci un respiro.
“Non si distrugge per divertimento, Daniele”.
“Non l’ho fatto per quello”.
“E neppure per curiosità”.
“Non è stata neanche curiosità. L’ho distrutto perché potevo farlo: avevo un potere e ho scelto di esercitarlo. Il formicaio sventrato si è coperto di formiche. Si muovevano convulsamente, erano come impazzite. Alcune cercavano di salvare le uova. Allora ho iniziato a ucciderle a campione. Le schiacciavo con il dito, mi stupivo di quanto fosse semplice: tu sì, tu no, tu sì, tu no. Ho continuato a esercitare un potere: lo possedevo, niente mi era vietato”.
Nel romanzo di Durante la questione del potere è centrale ed è legata alla vista e al riconoscimento. La questione del potere attraversa tutto il testo e ha a che vedere con ognuno dei tre personaggi principali. Ciò che li distingue, ciò che distingue il loro specifico modo di rapportarsi al potere, è altrettanto importante. Leni, che ricordo è narratore e il punto di vista principale, si assume fin da subito la responsabilità di cedere il potere, di rifiutarlo.
Posso guarire le persone che amo.
Qualunque sia il male, io posso curarlo: posso sanare una piccola abrasione o riassorbire un grosso ematoma, far regredire una mutazione cancerogena o riequilibrare uno stato psicotico. […] Non posso vincere la morte ma posso batterla sul tempo. Farle lo sgambetto. Quando guarisco qualcuno, lo perdo. Qualunque sia il male, la sua cura si trasforma nel mio male: io perdo l’affetto della persona che amo e che, proprio grazie a questo amore, ho potuto guarire. Vengo dimenticata. Disprezzata. […] L’unico compenso possibile, per me, è dunque l’abbandono: devo allontanarmi da chi ho guarito. […] Pur non avendo sperimentato di persona tutta la casistica in cui il mio potere di guaritrice potrebbe esplicarsi, io so. Solo una volta ho esercitato consapevolmente la mia facoltà di salvare. Dopo quella volta, non ho più voluto amare nessuno.
Come sperimentato da Re Lear, l’esercizio del potere comporta la perdita dell’amore. L’abdicazione, la rinuncia al potere, comporta la rinuncia all’amore, alla vita.
Daniele e Leni sono su due posizioni simili e contrarie, il dritto e il verso della stessa immagine. In entrambi i casi il potere si articola come un saper fare e come una immagine di autorità. Nel primo caso il re distrugge, nell’altro salva. Il brivido nell’esercizio del controllo e della distruzione, multiplo e rapidissimo e orgasmico, viene bilanciato dalla lunga pena che ogni liberazione comporta. Come toccava a chi tornava alla caverna a portare notizie del mondo, così il re salvatore viene rifiutato, disconosciuto. E dunque rinuncia[6]. Quando si rinuncia all’amore si rinuncia alla vita, come dice senza ambiguità Paolo di Tarso, nella prima lettera ai Corinzi[7] (13, 1-8).
L’amore e il controllo, le due facce di cui abbiamo appena dato dei ragguagli, sono comprese nella figura di zia Eleonora, eminenza malvagia, nero maître à penser, colei nella quale si fondono le istanze della potestas. È lei a crescere Leni, modificando mano a mano le storie della sua origine a seconda dei casi, delle urgenze, del disegno educativo:
Ma specialmente avevo imparato a credere: a tutto ciò che lei diceva, quale che fosse la natura di quanto era detto e la conseguente natura del dubbio. Alla zia si crede: così come si crederebbe alla madre.
La zia è la madre.
[…]
A quattro anni ero stata figlia dell’albero di pesco che stava sul lato nord del giardino, prima che zia Eleonora lo facesse abbattere. […] A cinque anni ero stata figlia del pino mugo che stava nel lato sud del giardino. Un giorno, alzando la testa per guardare se il cielo minacciava pioggia, lei mi aveva vista penzolare da uno dei rami più alti. Aveva preso una scala lunghissima e mi aveva tirata giù. […] A sei anni ero stata figlia delle rose: partorita da un cinorrodo grosso e carnoso, una pancia che m’aveva contenuta per chissà quanti mesi, accoccolata fra gli acheni color senape. […] Fino a sette anni, insomma, ero stata figlia del giardino. A ripensarci oggi, mi sembra la menzogna più onesta che potesse raccontarmi. L’altra menzogna, quella di mia madre che moriva e di mio padre che scappava, aveva dovuto aspettare.
E sostenendo con la bambina un intenso e malato rapporto corporeo:
Poi cominciava il silenzio: lei si prendeva cura di me. Crescendo ho capito cosa realmente fosse e cosa lei mi facesse, ma in quel momento no. E non potevo parlarne con nessuno. “Tu sai che nessuno capirebbe, perché noi non siamo di qui. Non apparteniamo a questo posto”. In quel momento, per ciò che potevo comprendere, che mi veniva detto, era l’amore. Anche se faceva male, era comunque l’amore.
Da queste violenze e dalla successiva promiscuità sessuale che Leni sperimenta per un breve periodo e che quindi nega qualsiasi conoscenza e permanenza di una paternità per Daniele, è logico aspettarsi che sia zia Eleonora ad assumersi il compito di fare il padre di Daniele. È da zia/madre/padre Eleonora che Daniele eredita la essenza distruttrice del potere, giudice della vita e della morte e violenza dominante la natura. In una scena, a tavola, zia Eleonora è intenta a raccontare a Leni del supplizio medioevale della massola, descrivendolo con cruenta e feroce e golosa vividezza. Poi:
Ti chiederai: perché tutto questo accanimento? Certo non è la semplice punizione di un crimine. Il supplizio comincia dopo la morte, si accanisce sul corpo morto. Non è castigo, non è espiazione. La massola era…”
Portò alla bocca una cucchiaiata di minestra. Deglutì.
“La manifestazione rituale del potere infinito di punire.
“Il potere che non si lascia contenere da niente, neppure dalla morte.
“Il potere capace di generare terrore: incontenibile anch’esso.
“Il potere che attraverso la paura incontenuta si conserva intatto nel rispetto […]”.
L’esposizione è consustanziale al potere, che può esistere ed essere esercitato solo se presente e visibile nel corpo eterno della sovranità, e nelle azioni del suo corpo naturale. Questa sovranità ha saltato una generazione passando da zia Eleonora a Daniele, ma ciò non ha impedito a Leni e a ciò che essa rappresenta di agire in altra direzione, interrompendo la catena del potere.
Novella Ipsipile[8], Leni ha rinunciato all’amore e abbandona chi dovrebbe invece custodire, lasciando così il re privo di eredi, il suo desiderio privo di oggetti. La decisione finale sembra rompere il legame malefico che teneva unita questa triade tutta interna/tutta esterna, ma in realtà non muove nella direzione della vita, che sarebbe stata possibile solo scegliendo l’amore, il perdono. La scelta di Leni conferma che la violenza non finisce ma si reitera senza sosta, senza soluzione, senza alcuna pacificazione.
[1] J. P. Sartre, La nausea, trad. it. di B. Fonzi, Milano, CdE, 1988, p. 142
[2] Platone, Repubblica, a cura di M. Vegetti, Milano, Rizzoli, 2006, Libro VII, 514°-517d, passim, pp. 841-851
[3] Mĕtŭs: timore, paura. Nel diritto romano esisteva una triplice tutela per i soggetti costretti a fare qualcosa sotto la minaccia di pericolo (quindi in uno stato di mĕtŭs). In mitologia, Mĕtŭs (o Fuga, Formido, Timor, Pavor) è la latinizzazione del greco Fobos, da cui fobia. Per Cicerone egli è figlio di Erebo (la divinità ancestrale delle tenebre) e di Notte.
[4] «Ma se dovesse di nuovo discernere quelle ombre e disputarne con quelli che son sempre rimasti in catene, mentre vede male perché i suoi occhi non si sono ancora assuefatti, ciò che richiederebbe un tempo non breve, non si renderebbe forse ridicolo, non si direbbe di lui che, salito quassù, ne è tornato con gli occhi rovinati, e dunque non val la pena neppure di tentare l’ascesa? e chi provasse a scioglierli e a guidarli verso l’alto, appena potessero afferrarlo e ucciderlo, non lo ucciderebbero?», cfr. Platone, Repubblica, op. cit.
[5] W. H. Auden, Un altro tempo, trad. it. di Nicola Gardini, Milano, Adelphi, 1998, p. 49
[6] «Su, allora» dissi io: «convieni anche su questo fatto, che non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù…». cfr. Platone, Repubblica, 517d, op. cit., p. 851
[7] «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L'amore non verrà mai meno», La Bibbia, edizione Nuova Riveduta, 1994.
[8] Ipsipile era regina di Lemno. Le donne della città smisero di sacrificare a Afrodite perché infedele a Efesto e quella le punì con una alitosi tale da tenere distanti gli uomini, che trovarono conforto tra le braccia delle schiave di Tracia. Offese, le donne pianificarono di uccidere tutti i maschi dell’isola. Solo Ipsipile venne meno al patto, salvando di nascosto il padre. Venne in seguito in contatto con Giasone che, in viaggio per la conquista del vello d’oro, fece scalo nell’isola, sedusse e abbandonò la regina, che diede poi alla luce due gemelli. Le donne scoprirono anche il suo passato imbroglio e, per evitare di essere uccisa scappò coi figli finendo a Nemea, tra gli schiavi di Licurgo che affidò alle sue cure il proprio figlio Ofelte. Ipsipile, per indicare una fonte d’acqua ai Sette eroi della spedizione contro Tebe, lasciò in terra il bambino che fu stritolato a morte da un serpente.
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