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De brevitate versūs.

Un apologo veramente troppo lungo sulla brevità.




«Miei Reverendi Padri, le mie lettere non eran use a susseguirsi così dappresso né a esser così lunghe. La scarsità del tempo a mia disposizione è stata la cagione dell’una e dell’altra cosa. Questa lettera è più lunga delle altre perché non ho avuto agio di farla più breve[1]».

Così Blaise Pascal a conclusione della sedicesima e terz’ultima delle Lettere a un provinciale. Si tratta di un’opera d’occasione e si inserisce nella disputa seicentesca tra Giansenisti e Gesuiti che insisteva maggiormente sulle questioni della salvezza dell’uomo, del ruolo della grazia di Dio e della presenza ed efficacia del libero arbitrio. Quest’opera riscosse grande, grandissimo successo, sia perché venne pubblicata (dapprima una lettera alla volta, poi in volume nel 1657) in un momento in cui molti erano i lettori interessati a un tema non più solo teologico; sia perché Pascal (che pure le pubblicò in forma anonima), non essendo teologo di professione, scelse uno stile neutro, letterario più che dotto, e un approccio lontano da ogni specialismo, proprio di chi si mette ad indagare attorno a un tema affidandosi alla ragione e non all’autorità. Il trentaduenne uomo di scienza ne fece un tema da salotto, più che da aula universitaria, e in ciò riuscì meglio a raggiungere lo scopo che più gli interessava, vale a dire soccorrere l’amico Antoine Arnauld, il famoso teologo di Port-Royal che di lì a qualche anno avrebbe pubblicato con Pierre Nicole la fondamentale Logica o l’arte di pensare.


Le provinciali (nome assunto fin da subito) contribuirono inoltre a formare la letteratura francese del cosiddetto secolo d’oro[2], dominata da un forte movimento di repressione e rimozione, da un continuo gioco di luci e ombre, dalla ricerca di un linguaggio aristocratico e quasi emendato che si sostanzia nella fondazione della Academie Francaise (1635) ad opera di Richelieu, da una nuova ansia moralizzatrice (La Rochefoucauld, La Bruyère) a seguito della fine della rovinosa Guerra dei Trent’anni (1648); dal punto di vista religioso, il rafforzamento della monarchia iniziato da Richelieu, continuato da Mazzarino e preso in carico da Luigi XIV, muove verso la soppressione di ogni opposizione e la revoca dell’editto di Nantes è solo uno dei molti provvedimenti contro gli ugonotti (i calvinisti) e l’esito ultimo di una ampia politica di conversione dei protestanti al cattolicesimo (nella sua veste depotenziata gallicana).




Vittima illustre di questo clima fu Molière il cui Tartufo fu messo al bando vietandone ogni rappresentazione pubblica. Già nella sua commedia d’esordio, Lo stordito (1655, di chiara ascendenza italiana), Molière fa dire al personaggio Anselmo:


Si notre esprit n’est pas sage à toutes les heures, Les plus courtes erreurs sont toujours les meilleures[3]

E così è se nel giro di due anni, fortunatamente, il bando cade e la commedia può tornare ad essere rappresentata.

In un luogo della Parigi di oggi, dove si incrociano a angolo acuto la rue Richelieu, la rue Thérèse e la rue Molière, egli avrebbe visto un uomo seduto immobile tra le colonne. Al di sotto di quest’uomo stanno due donne di marmo bianco con dei rotoli nelle mani. E ancor più in basso di queste ci sono teste di leoni, e sotto l’asciutta cavità di una fontana. Eccolo, astuto e seducente! Ecco il commediografo e drammaturgo di corte! Eccolo con la parrucca di bronzo e i fiocchi di bronzo ai calzari! Ecco il re del dramma francese![4]


Con un certo gusto comico, una volta raggiunta la ricchezza, Molière prenderà casa in rue Richelieu, una via centralissima di Parigi intitolata proprio a quel cardinale che abbiamo incontrato spesso in queste righe e a cui è stata attribuita la seguente frase, che se pure fosse apocrifa, varrebbe comunque a sostenerci nel nostro intento sulla brevità:


Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare.

Nessuno scrupolo, certo, protetti da quella che con lui si cominciò a chiamare ragion di Stato e che fu uno dei maggiori obiettivi polemici del Mars Gallicus di Cornelius Otto Jansen, meglio noto come Giansenio; l’autore (nato lo stesso anno di Richelieu) lo pubblicò nel 1634. Postumo uscì invece l’Augustinus nel quale Giansenio, rileggendo Agostino, elabora la sua teoria sulla grazia e sul libero arbitrio, ponendo le basi di quella disputa teologica dalla quale siamo partiti; un’opera poderosa la cui lunghezza servì solo a ritardare la condanna papale, arrivata con la bolla In eminenti del 1642.


Circa negli stessi anni, in Spagna, Baltasar Graciàn, filosofo e scrittore gesuita, pubblica alcuni dei capolavori della letteratura spagnola del siglo de oro. Nella sua pessimistica visione del mondo, tipica del Barocco spagnolo, è di primaria importanza l’uso della prudenza, l’avere buone conoscenze, il saper destreggiarsi dissimulando. Il suo stile è molto personale, frammentato, basato su periodi brevi e immaginifici. In una delle sue ultime opere scrive:


Suole essere noioso l’uomo che non sa fare né dire che una sola cosa. La brevità è gradita e giova di più: s’acquista in cortesia quel che si perde in lunghezza. Quel che è buono davvero, diventa buono il doppio, se è contenuto in poco spazio; e perfino il male, se è poco, pare minore. Fanno più effetto le quintessenze che le farragini. Ed è verità universalmente riconosciuta che l’uomo prolisso è raramente saggio, non tanto per la materiale disposizione quanto per la sostanza del ragionamento. Vi sono uomini che servono a ingombrar l’universo, piuttosto che ad esserne l’ornamento, oggetti perduti dai quali tutti rifuggono. L’uomo saggio eviti di esser d’impaccio, soprattutto ai grandi personaggi che vivono in mezzo a tante occupazioni; sarebbe assai peggio infastidire un di loro che non tutto il resto del mondo. Le cose ben dette si dicono in fretta[5].

Giustissimo. Ed estremamente prolisso. Sembrano risuonare le parole che Shakespeare aveva messo in bocca, qualche decennio prima, a Polonio (Amleto, II, 2, 90):

Ecco dunque un affare ben concluso. Mio sovrano e signora, a disquisir sulla sovranità, sui suoi doveri, perché il giorno è giorno, la notte è notte, perché il tempo è tempo, non sarebbe che perdere la notte ed il giorno ed il tempo. Perciò se è vero che la brevità è l’anima del senno, e il parlar troppo un fronzolo esteriore, il mio discorso sarà molto breve. Il vostro nobile figliolo è pazzo: e dico “pazzo”, perché definire in che consista ogni vera pazzia ch’altro sarebbe, se non esser pazzi? Ma via, lasciamo andare[6]

Chiudiamo col bardo, temendo di aver fatto anche qui troppo rumore per nulla.


[1] Blaise Pascal, Le provinciali, Laterza, Bari 1963, a cura di Paolo Serini, p. 270

[2] È stato Voltaire, nel 1751, a coniare il termine Le Grand Siècle per definire l’epoca del Re Sole. Si tende più recentemente a estendere i limiti coperti da questa categoria cronologica facendola iniziare nel 1589 e chiudere nel 1715. In merito all’importanza letteraria delle Provinciali, Giulio Preti introducendo l’edizione Einaudi del 1983 scrive che esse «sono state ritenute per tutto il secolo XVIII e parte del XIX come uno dei capolavori, se non addirittura il capolavoro, della letteratura francese “classica”».

[3] “Se la nostra anima non è saggia a tutte le ore/gli errori più brevi sono sempre i migliori”.

[4] Michail A. Bulgakov, La vita del signor de Molière, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985, trad. it. di Ljiljana Avirović Rupeni, p. 8

[5] Baltasar Gracián, Oracolo manuale e arte di prudenza, trad. it. di Antonio Gasparetti, Milano, TEA, 1991, p. 80

[6] Trad. it. di Goffredo Raponi

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