dà-le] agg. (pl. –li)
Sesquipedale
[Post che consiglio di leggere ascoltando Il Concerto n. 2 per piano e orchestra in Do Minore (op. 18) di Rachmaninov]
Monsieur, j’ai deux mots à te dire…”
– Je lui jetai le reste au sein
Dans un baiser, qui la fit rire
D’un bon rire qui voulait bien…
A. Rimbaud – Prèmiere soirée
Eccoti qua. Tu sei la parola.
Mai usata, o forse una volta quando c’era da fare lo sbruffone, il gaggio. Ma poi si sa, a fare il gaggio con le parole che ci guadagni? A che serve? A chi? A cos’altro se non a un’oratoria che vuole soltanto se stessa e mai prende in cura l’altro, il messaggio, la compassione del discorso, nel discorso. A cos’altro, ancora, se non a un piccolo mondo antico ed isolato, guardato come la gabbia dei leoni o la culla del neonato. Da chi sta fuori e sbalordisce. Da chi sta attorno, e fa i versi.
Sesquipedale è parola poetica, latina. E rimanda ad una concezione poetica classica, greca e latina. Quelli scandivano il ritmo col piede, lo battevano per terra (no, non come il deretano del debitore di cui si diceva qui). Il piede dunque come unità metrica fondamentale di un verso che si dipanava in vario modo, con una quantità variabile di sillabe (minimo due), brevi e lunghe. La poesia greca e latina era una versificazione basata sulla quantità sillabica ed il piede era la cellula costitutiva base non ulteriormente divisibile.
Era importante la misura delle cose per i Greci e i Latini, la giusta misura che dava bella forma ai contenuti. E quando Protagora, che era un retore, un sofista, diceva: “l’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono” esprimeva un concetto ben diverso e ben più profondo di quello relativista, a cui spesso parlando di Protagora (ammesso che qualcuno parli ancora di Protagora) si fa riferimento. Protagora alludeva alla responsabilità e al diritto che ogni uomo, ciascun uomo, ha di occuparsi della cosa pubblica, contribuendo con la propria voce alla giusta misura delle cose che sono e che non sono. Per arrivare a questo, conta moltissimo la paideia, cioè l’educazione che chi sa deve impartire a chi ancora non sa affinché si aggreghi a quelli nel perpetuare il compito comune del governo, che è parte della generale civile conversazione.
Sesquipedale come contrazione di semisque pedalis, vuol dire lungo un piede e mezzo, che per un latino significava troppo, cioè, come abbiamo visto, fuori misura, sproporzionato; sesquipedale si connota negativamente, va ad indicare qualcosa di sgraziato e, col tempo, passa a significare madornale e rozzo a un tempo. Parola modernissima, insomma, adeguata. E perciò, come spesso accade, dimenticata.
E che cosa c’entra allora qui, tra le parole del disamore? Che sia una sorta di spuntino per la narcisistica oratoria – che, come è stato notato, a tratti è anche incoerente – già si è detto poco sopra. C’entra col fatto che in amore, a volte, siamo detective a cui nessuno ha affidato un caso e che dunque se lo creano. Giriamo intorno, snasiamo alla ricerca di tartufi grossi come pietre sperando nel colpo ad effetto, nella grande soirée dell’amore, in cui saper e poter fare un’entrata unica, capace di convogliarci addosso gli sguardi stupiti ed ammirati degli astanti, meglio di Casanova, di Dongiovanni, di Rodolfo Valentino. Sì, esagerare, nel bene e nel male, abbondare, caricare, stare sopra le righe per nascondere ciò che tra le righe non varrebbe la pena venisse letto. Sgargiante e senza freno, paratattico o ancor più, privo di pause, di intermezzi, di interregni silenziosi e meditativi. Cloaca fluente di verbi e casi, sostantivi ed avverbi, spesso riconducibili a pochi passepartout buoni ad ogni occasione, per ogni illusione. Sesquipedale nell’amore, nelle cose dell’amore, grezzo e sfinente, purtroppo spesso sfinito, parodia di quel se stesso che non c’è, non c’è mai stato, non ci sarà perché abita il mondo antico della fantasia, creata un giorno di mille anni fa, nelle favole raccontate dai grandi per far crescere i piccoli.
Che poi crescono davvero.
E si voltano indietro.
Pardòn! – dicono – Je me suis trompé.
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