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Polvere







Pig-Pen. Non è certamente il personaggio più famoso dei Peanuts, nonostante sia inconfondibile. Nemmeno è il più fortunato, se è vero che non ha un nome proprio e se è vero che perfino il suo creatore, Schultz, si è pentito di averlo ideato e lo ha fatto scomparire (l’ultima sua apparizione, con addio, è del 1999).



Eppure Pig-pen rappresenta, come Linus e Charlie Brown, un tratto inalienabile della nostra natura (o meglio, cultura); di questo ne è consapevole egli stesso, come emerge chiaramente da una battuta da una delle sue prime apparizioni in una strip:

I have affixed to me the dust and dirt of countless ages…who am I to disturb history?

Fino all’ultimo saluto, nel quale si mostra stranamente imbarazzato e confuso, Pig-pen ha sempre guardato alla propria sporcizia e alle nuvole di polvere che alza ad ogni movimento, con orgoglio e fierezza, consapevole dell’inevitabile destino delle cose umane che nascono per scomparire, per essere dimenticate, accorto che la storia accade, a guardarsi indietro, con il moto presto e violento di un’orda di barbari. Di questo passaggio in terra Pig-pen, o meglio il suo corpo, è testimone è indizio, prova, testimonianza.

Pig-pen è la soffitta, la cantina che ciascuno di noi ha in casa e nella mente, il luogo reietto dove si depositano cose, fatti, emozioni per diventare favole, misteri, segreti, cose innominate e dunque pericolosamente insignificanti.


Tutti noi siamo coperti di polvere e solleviamo nuvole quando agiamo, ci spostiamo, parliamo, viviamo insomma. Ci portiamo davvero addosso lo sporco delle generazioni passate, dei nostri padri e madri, dei conosciuti, dei dimenticati, degli avuti. Il che non è necessariamente un male; il che porta a dire che alcune cose vanno lasciate nel posto in cui sono, sotto allo spesso strato di caligine che le ha ricoperte:

Intorno a quella che rideva illusa

nel ricco peplo, e che morì di fame,

v’era una stirpe logora e confusa:

topaie, materassi, vasellame,

lucerne, ceste, mobili: ciarpame

reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste

v’erano stampe di persone egregie;

incoronato dalle frondi regie

v’era Torquato nei giardini d’Este.

“Avvocato, perché su quelle teste

buffe si vede un ramo di ciliege?”

Io risi, tanto che fermammo il passo,

e ridendo pensai questo pensiero:

Oimè! La Gloria! un corridoio basso,

tre ceste, un canterano dell’Impero,

la brutta effigie incorniciata in nero

e sotto il nome di Torquato Tasso!

[Guido Gozzano, La signorina Felicita, IV]


Oltre al ciarpame, però, sta quella parte della storia che è la nostra storia, che brucia ancora i nostri occhi, che puzza al nostro naso e punge alla nostra lingua, aspra. La polvere, lo sporco, ci differenziano. Senza di essi, esattamente, chi saremmo?


La polvere sta nel destino dell’uomo, ne costituisce l’atmosfera, quella che potremmo definire aria di casa. Sta alla volontà di ciascuno, credo, assumersi l’onere di questo destino e prendersi cura della polvere, così come essa si è presa cura delle cose. Ogni scrittura, soprattutto ogni scrittura di sé, ha questo di avventuroso: è come un’archeologia spinta nei bassifondi di quel tempio che siamo, di quel tempo che siamo. In ciò sta anche il suo essere sempre fuori orario.

La mia parte migliore si destò e tutto quello a cui aspiravo negli oscuri recessi del mio essere affiorò in quel momento alla coscienza. Davanti a me c’era la muta tranquillità della natura, indifferente alla grande città; oltre queste strade, attorno a queste strade, c’era il deserto che attendeva che la città morisse per ricoprirla di nuovo con la sua sabbia senza tempo. Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Il deserto era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell’umanità e fui contento di farne parte. Il male del mondo non era più tale, ma diventava ai miei occhi un mezzo indispensabile per tenere lontano il deserto. [John Fante, Chiedi alla polvere, trad. It di Maria Giulia Castagnone]
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