Non c'è stata nessuna battaglia di Romolo Bugaro
- epicentriblog
- 23 giu 2019
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 25 giu 2019
Sta per aggiungere: «Ho delle cicatrici dentro di me», ma si ferma in tempo. Cos’è una cicatrice, Oh Toby? sarebbe la domanda successiva. E lei dovrebbe spiegare cos’è una cicatrice. Una cicatrice è come uno scrivere sul tuo corpo. Racconta di qualcosa che ti è successo un giorno, qualcosa come un taglio nella tua pelle da dove è uscito il sangue. Cos’è scrivere, Oh Toby? Scrivere è quando fai dei segni su un pezzo di carta – su un sasso – su una superficie piatta, come la sabbia sulla spiaggia, e ciascuno dei segni indica un suono, e tutti i suoni insieme indicano una parola, e le parole unite insieme indicano… Come la fai, questa scrittura, Oh Toby? Si fa con una tastiera… no… una volta si faceva con una penna o una matita, una matita è… oppure si fa con uno stecco. Oh Toby, non capisco. Fai un segno con uno stecco sulla tua pelle, ti fai un taglio nella pelle e poi viene la cicatrice, e la cicatrice diventa una voce? Parla, ci dice delle cose? Oh Toby, possiamo sentire cosa dice la cicatrice? Mi mostri come si fanno queste cicatrici che parlano?[1]
La scrittura narrativa è un altro modo di fare storia, piccola storia. Permette di dare voci a chi, nella storiografia ufficiale, rimane fuori dai giochi, come non fosse esistito, e lo fa nel modo più onesto possibile: immaginando. Inventando.
Se in più si tratta di fare i conti col proprio passato, con la propria storia, allora la scrittura è davvero il lasciar parlare le nostre cicatrici e aiuta a rispondere a una delle domande più perturbanti tra quelle che prima o poi ci poniamo, ci dobbiamo porre: è questa la vita che volevo?

Romolo Bugaro nel suo ultimo romanzo appena pubblicato per Marsilio, Non c’è stata nessuna battaglia, cerca di dare una risposta a un simile interrogativo attraverso il racconto delle vicende di cinque amici, adolescenti nella Padova degli anni Settanta. Lo fa lavorando sulla costruzione a incastro e sul tempo, intercalando il racconto dei fatti di un pomeriggio di giugno del 1976, pomeriggio come tanti, come tutti inimitabile; al racconto di alcuni episodi che riguardano gli stessi personaggi in diversi momenti della loro vita. Ne esce una sorta di puzzle incompleto, come se Bugaro avesse voluto ricalcare le orme lasciate dalla memoria, quel saltimbanco della vita che abita ognuno di noi. Sono macchie di luce che emergono nell’ampio tessuto scuro che vediamo calarsi se ci guardiamo indietro.
Il titolo accenna in modo volutamente oscuro al fatto che ogni generazione riempie i campi di lapidi e i corpi di ferite, senza che necessariamente accadono conflitti bellici. Anche in loro assenza tra di noi, nei nostri gruppi, nelle nostre famiglie, qualcuno si perde. E se questo non basta, ci pensa la vita delle cose da fare a sfilacciare i legami a indebolire in modo quasi irrimediabile la forza che ci teneva uniti un tempo.
C’è un momento – è questo in fondo il messaggio ultimo del romanzo, che spinge a una riflessione fondamentale su di noi e sulle nostre decisioni – nella vita di ciascuno in cui la catena delle decisioni arriva a un punto di non ritorno, oltre al quale ciò che abbiamo innescato, in modo per altro inconsapevole, non può più essere fermato. Lì, più che altrove, si decide della nostra esistenza; non perché il resto conti meno non perché il fatto sia in sé memorabile – anzi spesso non lo è affatto; ma perché in quell’istante è come se fosse stato raggiunto un punto di massima concentrazione di forze tale che deve necessariamente sprigionare un effetto non più evitabile. Ciò è massimamente visibile nella frenesia dell’adolescenza:
Sono ragazzi anche simpatici, presi uno a uno, ma non quando sono lì, in quel piazzale, attaccati alla corrente a diecimila volt della voglia di stare con tutti, non perdere nessun incontro o contatto o possibilità, e così parlano con te e intanto guardano qualcun altro, ascoltano te e intanto pensano a qualcos’altro, una corrente che li rende frenetici e incontrollabili e anche abbastanza cattivi, se vogliamo[2].

La Storia, quella degli scontri tra i gruppi neofascisti e quelli dei centri sociali, la Storia della crescita spaventosa del consumo di droga, la Storia dei fallimenti bancari, la Storia insomma dei fatti che contano rimane sullo sfondo, c’è, si agita e brontola, ma è come se non avesse voce. La voce è delegata ai protagonisti, narratori in prima persona delle proprie storie; o a personaggi secondari, che nel tempo e sempre in prima persona raccontano qualcosa di questi ragazzi. Oppure, infine, a un narratore esterno, che ci parla – e questo è un riuscito esperimento narrativo di Bugaro – di una sorta di soggetto collettivo, in cui i vari protagonisti sono tra loro intercambiabili.
Mesi dopo incontrano un’altra ragazza di nome Laura o Gaia o Federica, che guida una vespa bianca con la bandinella coperta di adesivi e fa danza al Comini quattro volte alla settimana e passa il Natale nella casa di Alverà insieme ai genitori e alla sorella grande che torna apposta dal Canada.
Federica è figlia di un ortopedico noto per avere in cura molti calciatori famosissimi o di un ingegnere con molti interessi in Iran per via dei cantieri delle grandi opere o di un ex dirigente di banca diventato consulente finanziario in proprio. Abita in un appartamento di trecento metri quadrati in via Altinate o Riviera Paleocapa o piazzetta San Nicolò, è iscritta al Nievo o al Fermi o al Barbarigo sezione scientifica perché non vuole saperne del greco, ed è amica di Gaia De Martinis e Antonella Lorenzoni che vanno al Comini come lei e anche al maneggio di via Libia.
Sarà una storia piuttosto lunga, nonostante qualche momento di crisi.
Resteranno insieme anni[3].
L’effetto finale che la lettura mi ha lasciato, è stato quello di trovarmi di fronte alla trascrizione di un processo. Nessun delitto, nessun reato, nessun imputato. Solo l’intenzione di capire qualcosa sul tempo; e, per capire, la necessità di far testimoniare, di dare voce a quanti c’erano e possono aver visto, o sentito, o avvertito o aver sentito raccontare, i modi in cui la vita e il suo indefinito potenziale di espressione si è ridotta sempre più a questo corpo ferito, a questa trama di cicatrici che parlano.
Romolo Bugaro Non c’è stata nessuna battaglia
Marsilio, 2019, pp. 217
€ 16,00
Dello stesso autore
Bea vita! Crudo Nordest, Laterza, 2010, collana Contromano
Effetto domino, Einaudi, 2015
Se ti è piaciuto, potresti leggere anche
Claudia Grendene, Eravamo tutti vivi, Marsilio, 2018 [intervista qui]
[1] Margaret Atwood, L’altro inizio, trad. it. di Francesco Bruno, Milano, Ponte alle grazie, 2014
[2] Romolo Bugaro, Non c’è stata nessuna battaglia, Venezia, Marsilio, 2019, p. 47
[3] Ibid., pp. 45-46
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