Ho cominciato a prendere coscienza che noi due,
per me, era qualche cosa che esisteva.
Da una lettera di Bianca Garufi a Cesare Pavese
In Mitografia di un’affinità, seconda uscita della neonata collana Impronte dell’editore Divergenze, Marta Mariani rielabora il lavoro dottorale incentrato sul rapporto tra Bianca Garufi e Cesare Pavese, rapporto ad un tempo intellettuale ed affettivo, se mai i due ambiti, quando profondissimi come in questo caso, possano andare davvero disgiunti.
Il saggio, breve per estensione ma profondo nell’indicare le vie principali di questa affinità, si divide in due parti. Nella prima l’autrice mostra in termini generali tali direttrici e appoggiandosi a stralci dell’epistolario tra i due indica la corrispondenza amorosa che si è andata formando negli anni, il rapporto di scambio e aiuto in ambito lavorativo (sia mentre entrambi lavorano in Einaudi, sia quando Bianca Garufi lascia l’editore torinese per entrare in Astrolabio), nonché la forte e reciproca influenza per quanto concerne l’attività e la riflessione intellettuale, soprattutto legata a temi quali la mitologia e le dottrine psicoanalitiche di matrice junghiana. È in questo torno d’anni che Pavese, mosso anche dalle riflessioni scaturite all’interno del rapporto con Garufi, insiste con Giulio Einaudi affinché presti ascolto all’idea sua e di Ernesto De Martino (i due avevano iniziato a parlarne già nel 1943), circa la pubblicazione di testi di ambito etnologico, religioso, mitologico; l’insistenza avrà quell’esito felicissimo che fu la collana viola, che rimase viva in Einaudi dal 1945 al 1957, per poi trasferirsi in Boringhieri[1].
Bianca Garufi, siciliana di nascita – l’aspetto mediterraneo e classico è decisivo per la sua formazione, si interessò fin dal loro ingresso nell’immediato dopoguerra, alle dottrine psicoanalitiche sia freudiane che junghiane. Ma certo, è soprattutto nella psicologia analitica di Jung – da Freud considerato alla stregua di un apostata – che Garufi trova affinità e consonanze con quanto andava elaborando personalmente.
Nel 1951 si laureò con una tesi intitolata La psicologia e la dinamica della personalità nell’opera di C. G. Jung, quella che è a tutti gli effetti la prima tesi discussa in Italia su Jung. Fondamentale è stato per Garufi l’incontro con l’analista junghiano Ernst Bernhard, che aveva aiutato a introdurre in Italia quelle dottrine e che andava svolgendo attività di terapeuta. Garufi iniziò dapprima come analizzanda, per poi diventare discepola di Bernhard.
Ad avere interesse per il pensiero junghiano eravamo pochi, ed eravamo pochissimi ad andare in analisi, a parte il fatto che non molti allora sapevano con una certa esattezza cosa fosse in realtà l'andare in analisi. […] Personalmente ho conosciuto Bernhard nel settembre 1944. […] Durante quel mio primo incontro, Bernhard mi diede soprattutto un'impressione di bonarietà e concretezza. Uscivo dall'esperienza della guerra e della resistenza e, durante il colloquio gliene parlai. Gli dissi inoltre con piglio oggettivo e con la fierezza della mia giovanile baldanza, che andavo da lui per mettere ordine nelle mie idee, né più né meno di come si va dal dentista per mettere in ordine la propria dentatura[2].
Intellettualmente libera e decisa nelle strade da perseguire, per molti aspetti Garufi rappresentava un che di diverso da Pavese, quasi opposto. Ciononostante furono un riferimento costante l’uno per l’altra, e la solarità e l’indole estroversa di Garufi, oltre a smuovere il desiderio amoroso di Pavese, gli suggeriscono anche sentimenti di profondo accudimento, di tenera cura.
Tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. A volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. Anzi allora mi immagino di fare le due cose insieme e questa è tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola[3].
Lettera di Pavese a Garufi del 21 Ottobre 1945
Nella seconda parte l’osservazione di Mariani si concentra sul lavoro narrativo, Fuoco grande, che ha impegnato i due, in un tentativo di collaborazione creativa che, nonostante non sia stato portato a termine, ha comunque lasciato un lavoro interessante che consta di undici capitoli e che può essere messo in relazione con la contemporanea stesura da parte di Pavese de I dialoghi con Leucò, opera dall’autore considerata come il proprio capolavoro.
Dietro a Leucò (Leucotea, dove leukôs significa, in greco, bianco) si nasconde proprio Bianca Garufi, donna dura, terrena e acquatica insieme. Si può dire – Mariani lo fa intendere – che è grazie allo scambio con Garufi, grazie al rovello continuo sul mito e i suoi costrutti, grazie anche a quell’assenza che sono stati l’uno per l’altra, che Pavese ha maturato il nuovo linguaggio dei Dialoghi, un linguaggio che, come scrive Francesca Belviso nella sua postfazione:
è mitico nella misura in cui la parola, inseparabile dal culto, dice il vero e fa apparire il divino, divenendo mediatrice tra gli uomini e gli dèi.
Mitografia di un’affinità, grazie a una bellissima scrittura, chiara e senza sbavature, precisa e raffinata, è un testo che aiuta il lettore a districarsi meglio nella lettura dell’opera di Pavese, concentrandosi su una relazione significativa, anzi si un vero punto di svolta esistenziale – almeno per Pavese che definiva Bianca e sé una bellissima coppia discorde – dove fato e necessità si congiungono, e che trova il suo controcanto nell’elaborazione narrativa, teorica e spirituale che il grande scrittore langarolo portava a compimento in quegli anni.
[1] Cesare Pavese, Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri, Torino 1991 [2] Bianca Garufi, Una testimonianza, Rivista di psicologia analitica, 54, 1996, leggibile a questo indirizzo: https://www.rivistapsicologianalitica.it/v2/pdf2/54-1996-Maestri_scomodi/54-96_cap4.pdf [3] Le citazioni delle lettere sono prese dal carteggio: Una bellissima coppia discorde. Il carteggio tra Bianca Garufi e Cesare Pavese (1945-1950), a cura di Mariarosa Masoero, Olschki Editore, Firenze 2011
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