La memoria è una brutta bestia.
Sia quando fallisce – e il famoso ce l’ho sulla punta della lingua è solo uno dei molti modi in cui si dice questo scacco; sia quando funziona, prestante, elastica, attiva, veloce, capace, misteriosamente precisa nel riportare a galla visi nomi fogge detti motti e affetti, tanti, così tanti che mai avresti sospettato.
La memoria non è una, così ci insegnano. Banalmente, è come la Gallia di Cesare: divisa in tre parti. C’è la memoria sensoriale, che pur facendo già il maggior filtro, si accolla una marea di dati e che però dura, appunto, il tempo di un battito di ciglia, o poco più; c’è la memoria a breve termine, che è un po’ come il polpo barista in Chi ha incastrato Roger Rabbit?, intenta a dar retta a molti clienti contemporaneamente, salvo poi passare a altro una volta serviti; e c’è infine la memoria a lungo termine, lo schedario, la cassetta di sicurezza della nostra identità, giacimento prezioso e insieme città sepolta. Non è un caso che Freud parlasse del lavoro dell’analisi paragonandolo a quello di un archeologo.
La memoria a lungo termine è quella più complessa e strutturata, forse anche perché è la più studiata. Si è soliti dividerla in memoria dichiarativa e procedurale. Della prima fanno parte la memoria semantica (le parole e il loro significato, i fatti del mondo, la logica etc.) e quella episodica, che riguarda gli eventi della nostra vita e di cui la memoria autobiografica, che è in fondo la nostra continuamente modificata auto-narrazione, è parte integrante.
Della memoria procedurale, invece, conta dire qualcosa di diverso. Non è legata tanto al cosa, quanto al come. L’esempio classico che mi viene in mente è quello della bicicletta. Dopo aver imparato ad andarci, con fatica, cadute, fallimenti e piccole gioie, ogni volta che montiamo in sella semplicemente iniziamo a pedalare. Lo abbiamo imparato, acquisito, e ce lo ricordiamo col corpo, più che con un atto cosciente della mente.
È in questo preciso istante che il mio sguardo cade sulla bicicletta. Si tratta di una bici da donna, mio padre da un po’ usa quelle, credo per salire e scendere con maggiore comodità. D’un tratto mi rendo conto che per un certo periodo, ai tempi del liceo, ho usato anche io una bici di tal foggia, con il cestino davanti e il portapacchi dietro, per andare a scuola. L’idea si concretizza nel momento stesso in cui la realizzo […] Inforco la bici, do una rapida controllata alle ruote. Sono sgonfie il gusto, per un breve giro andranno bene. Per raggiungere il cancello devo fare una curva stretta sul marciapiede, e un moto d’orgoglio carico di nostalgia mi prende quando l’antica manovra mi viene in automatico, coordinando il movimento del manubrio con la giusta angolazione del pedale sinistro, per non incartarmi sullo spigolo del muro. Dopo pochi istanti sto pedalando per le vie dell’Arcella[1].
In questo brano la memoria, nella sua tripartizione, è protagonista assoluta. Ancora più in profondità del semplice andare in bicicletta, l’autore racconta dell’istante in cui un gesto, una coordinazione, emergono dalle profondità della nostra storia e ri-accadono, con stupefacente immediatezza.
Lungo la pedemontana, l’ultima fatica di Paolo Malaguti, è un lavoro che si muove, come dice il sottotitolo, lentamente tra storia, paesaggio e fantasie. In sei uscite più una, Paolo va in cerca di quella forma inaudita di trincea che la Superstrada Pedemontana Veneta rappresenta, per guardarla in faccia, percorrerla dove possibile, comprenderne il posto nel paesaggio e soprattutto per capire e narrare ciò che questo immenso cantiere agisce su di lui come stimolo a ricordare e come spunto a immaginare. Tra grandi sudate, molti chilometri e alcuni grandi incontri, si snodano le tappe di quella che pare essere, più che una via crucis, una via dee crozhere, tanti sono gli snodi, i groppi, gli incroci che la nuova strada subisce e impone, avendo come fantasma irredimibile la drittezza delle arterie d’epoca romana.
È un libro in cui Paolo raccoglie e rielabora l’eredità – meglio, ancora, la memoria – dei suoi lavori precedenti, sia quelli di narrativa, sia quelli incentrati sul lessico veneto. La strada è il simbolo di ogni mezzo di comunicazione per l’uomo, ed è causa ad un tempo di incontro e scontri, di doni e ruberie, incidendo il territorio come tratto d’unione e come ferita insanabile. Paolo rielabora le analisi e i ricordi autobiografici usati per i sillabari veneti e li integra alle ricerche sulla nostra storia recente e meno recente, svolte per i libri sul Grappa, sulla Grande Guerra e anche sull’impero d’Oriente. Alla base c’è la decisione di guardare da vicino le cose, per quello che appaiono, senza pregiudizi e interrogandosi, tenendo come scorta i grandi piccoli maestri del nostro Veneto così amato così odiato. Buzzati, Meneghello, Piovene, Rigoni Stern, Sanudo, Trevisan, Zanzotto parlano da luoghi più o meno remoti eppure in essi riecheggiano chi e somiglianze di famiglia che attraversano il paesaggio e attraversandolo lo uniscono. Ne esce un lavoro sincero, in cui lo spazio è presto preso dal dubbio e dalla mancanza di certezze, simboleggiati fisicamente dalla fatica dell’incedere.
La memoria si ricorda come farti andare in bici, ma l’allenamento è compito della volontà
[1] Paolo Malaguti, Lungo la pedemontana, Marsilio, Venezia 2018, pp. 204-205
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