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Delitti e castighi, di Michele Frisia


Il libro di Michele Frisia insegna termini e situazioni appropriati per chi si cimenta nella scrittura dei polizieschi e anche per chi ha una sana curiosità da soddisfare circa il mondo delle guardie e dei ladri.



Questa è una recensione diversa dalle altre, perché diverso è il libro di cui voglio parlarvi e di cui consiglio la lettura.

È una sorta di manuale ad uso e consumo di quanti vogliano mettersi a scrivere gialli, noir, crime-story, mistery novel e così via. Si intitola Delitti e castighi, è pubblicato da Dino Audino (il cui catalogo è ben noto a quanti si dedicano alla scrittura), ed è stato scritto da Michele Frisia, ex poliziotto, ora perito balistico nonché scrittore e sceneggiatore a sua volta.

Come conferma il sottotitolo, nel libro si troveranno Metodi di indagine e balistica raccontati da un ex poliziotto ad uso di scrittori e appassionati di cronaca nera. E ce n’è davvero per soddisfare curiosità, crearne di nuove, sciogliere dubbi e permettere di guardare con occhi più informati la realtà che ci circonda. Dove non altrimenti specificato, le citazioni si intendono da questo volume.


1.

"Il secondo indizio potrebbe essere ancora più promettente.

– Già. Il computer. L’ho settato tutto io, il portatile. Conosco tutte le password della signora.

– Lo so. Ci contavo. Per quello ti ho guardato male, prima, quando stavi per ridare al brigadiere il computer.

– Appuntato. Sai, ero poco presente a me stesso”.


[Marco Malvaldi, Milioni di milioni, Sellerio, Palermo 2012, p. 103]



“Rocco guardava Caciuppolo senza vederlo.

«Oppure non l’hanno ucciso, è morto per i fatti suoi e io sto a spara’ un sacco di stronzate. No, Caciuppolo?»

«Comissa’, se lo dice lei».

«Grazie agente. Appureremo pure ‘sta cosa. E comunque non so se leggi le circolari, se ti informi, ma nel corpo di polizia i commissari non ci sono più. Ora ci chiamano vicequestori. Ma è solo per dovere di informazione. A me non me ne frega meno di niente!».

«Sissignore».


[Antonio Manzini, Pista nera, Sellerio, Palermo 2013, p. 38]


Il problema dei gradi e competenze nelle forze di polizia non è da poco. Sia perché è bene chiamare le cose (e le persone) col proprio nome, sia perché sono ambiti in cui c’è una discreta confusione, un po’ perché è un ginepraio, un po’ perché spesso oggetto di modifiche e variazioni, come quella a cui allude Rocco Schiavone nel secondo brano citato. Il quale peraltro è inesatto perché non è vero che i Commissari non ci sono più, soltanto Vice-questore e commissario sono due gradi diversi. È comunque vero che l’errore nel nome (nel grado), così come l’errore protratto nel sillabare un nome proprio difficile o strano, è un artifizio comico tra i più vecchi della letteratura e Manzini se ne serve lungo l’intero romanzo per sottolineare il carattere del suo protagonista (Pista nera, è bene ricordarlo, è il primo della serie con protagonista Schiavone). A gradi e competenze, così come ai luoghi delle forze dell’ordine e ai vari corpi, Frisia dedica il capitolo 2.


2.




 “Casa Ransome era stata svaligiata. «Rapinata» disse Mrs Ransome. «Svaligiata» la corresse il marito. Le rapine si fanno in banca, una casa si svaligia. Mr Ransome era avvocato e riteneva che le parole avessero la loro importanza”.


[Alan Bennett, Nudi e crudi, Adelphi, Milano 2001, p. 9]




Una massima su cui si troverebbe particolarmente d’accordo anche Michele Apicella, il personaggio cinematografico creato da Nanni Moretti. Inizia così l’esilarante racconto di Alan Benett e non a caso il protagonista è un avvocato, amante del vocabolario e attento, come l’oratoria classica insegna, a definire l’argomento della trattazione prima di incominciare.

Il capitolo 3 del libro di Frisia si occupa proprio di rapine e di altri reati contro il patrimonio (furto, appropriazione indebita, truffa così via) dandone la giusta definizione. Si scoprono cose interessanti, come il fattore discriminante rappresentato dalla violenza dalla minaccia, o quello dovuto all’occupazione: cambia nome infatti lo stesso reato se commesso da un privato oppure da un funzionario pubblico.


3.


«Venga con me».

«Dove?».

«Lei l’ha già capito. Andiamo».

«Ma non è un po’ presto?».

«No, sono ormai le sette: apposta ho perso tempo con la sua filosofia».

«Presto, sempre presto». Odiava le abitudini della polizia di eseguire mandati di cattura, perquisizioni e anche sopralluoghi o visite informative, nelle prime ore del mattino e, più spesso, in piena notte […].

«Sono e sette,» disse il Capo «e ci vuole quasi mezz’ora per arrivare a Villaserena. E poi, data la circostanza, non posso permettermi particolari riguardi nemmeno per lui».

«Ce li siamo già permessi,» disse ironicamente il Vice «saremmo già lì da almeno tre ore, e gli avremmo messo sottosopra la casa, se lui non fosse lui».


[Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 2007, pp. 15-16]


In questo brano Sciascia parla degli attimi precedenti a una perquisizione che, come specifica Frisia, mira alla ricerca di qualcosa [pag. 54]. Se invece si deve solo verificare la presenza di qualcuno o qualcosa, si dice: ispezione.

La cosa interessante nel brano dello scrittore siciliano è quella riferita al tempo della perquisizione, giacché sembra che se non fosse per lo status del destinatario in questione, essa avrebbe avuto luogo nel cuore della notte. E infatti, Frisia:


Il momento migliore per eseguire una perquisizione è a notte fonda, più o meno fra le tre e le cinque del mattino; non per cogliere le persone nel sonno ma perché a quell’ora ragionevolmente si trovano in casa. Soprattutto nei casi in cui si devono perquisire contemporaneamente più obiettivi, in modo che un indagato non possa avvertire l’altro, è fondamentale reperire tutti i soggetti nello stesso momento e il modo migliore per farlo è quando sono tutti nelle loro abitazioni. Da quei a necessità di entrare fra le tre e le cinque del mattino. [p. 53]


Il passo è tratto dal capitolo 5, che parla appunto di perquisizioni e sarà utilissimo a chi deve scrollarsi di dosso la patina anglofila posatasi a causa della visione di troppi film o serie tv americane, dove un vero totem narrativo è costituito dal “Mandato” di cui si chiede esibizione e che però in Italia non esiste (almeno in questo contesto: esiste quello di rappresentanza, ad esempio).


4.


Chiudo questa mia ricognizione, parziale per lasciarvi il gusto di scoprire quanto abbia da offrire questo libro, dedicando alcune osservazioni al quinto capitolo, dedicato alle armi.


“Si voltarono lentamente. Erano on quattro. Dovevano averli attesi in strada, nascosti da qualche parte, forse dentro una macchina. Il Libanese li fotografò rapido: due tappi, in calzoncini e maglietta, identica faccia truce, da gemelli cavati male, un barbuto con fisico da lottatore e un occhio che guardava all’India e l’altro all’America, e al centro il più giovane. Moro, crespo, magrissimo. Il Freddo. Quasi un ragazzo. Sguardo che penetrava. Concentrato, deciso. Quanto a Dandi, studiava l’arsenale: tre semiautomatiche, e per il Freddo un revolver a canna lunga. Colt calibro 38. Una bella bestia: affidabile, tradizionale”.


[Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, ed. speciale per il Gruppo Editoriale L’Espresso, su licenza Einaudi, Roma 2007, pp. 23-24]


Parlare di armi non è semplice, perché oltre a dover, come visto fino ad ora, scegliere i termini appropriati, si devono verificare molti altri dettagli: sia tecnici (calibri, conformazione, proiettili, tipo di sparo, gittata, dimensioni e così via); sia storici (reperibilità, diffusione, aziende e anni di produzione etc.).

Nel brano riportato, De Cataldo – che tra l’altro è autore della prefazione al libro di Frisia – utilizza un termine generico, semiautomatiche, e uno specifico, revolver colt calibro 38, mostrando di aver fatto i compiti a casa. Frisia spiega molto accuratamente la differenza tra le varie tipologie (revolver, semiautomatiche, automatiche, fucili, fucili d’assalto e di precisione etc.) e nel paragrafo dedicato a come scegliere le armi per i personaggi del proprio racconto scrive:


I criminali invece usano le armi più disparate. Una fonte importante di approvvigionamento per il traffico d’armi sono i furti in abitazione e quindi le armi più diffuse nel sottobosco illegale sono quelle più diffuse nelle case, ovvero: pistole italiane, semiautomatiche, calibro 7,65mm, risalenti al periodo 1955-1990. A seguire le semiautomatiche moderne in calibro 9mm (Glock, Tanfoglio, Beretta ecc.) e i revolver calibro 38 (S&W, Colt ecc.). [p. 50]


Conclusione


Il libro di Michele Frisia è suddiviso in 5 parti, racchiuse da una introduzione e dalle conclusioni. Le prime quattro parti parlano ciascuna di un delitto di matrice diversa (Rapina, Stalking, Omicidio, Traffico di droga), mentre la quinta è dedicata ai castighi, alle pene che colgono i colpevoli una volta che la giustizia ha fatto il suo corso. In più, online sono disponibili numerose appendici di approfondimento.

Scritto in modo chiaro, sacrificando, e comprensibilmente, ogni tanto la precisione assoluta alla scorrevolezza del testo (è l’autore ad ammetterlo, con onestà), il manuale è uno strumento utile a chi vuole dedicarsi alla scrittura di gialli, come detto, ma anche a chi si trova ad ascoltare o leggere servizi giornalistici di cronaca nera e non ha sempre chiaro a chi o cosa certi nomi si riferiscano.

Se la realtà è sempre più complessa e ingarbugliata, le parole per dirla esistono e vanno imparate, pena il non pOter uscire dal ruolo di vittime inconsapevoli descritto da Manzoni nell’episodio del salvataggio del vicario da parte di Ferrer (cap. XIII).

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